E’ possibile tornare in una città dove non si è mai stati? Rivisitare luoghi che non si sono mai conosciuti? Sentirsi a casa là dove si arriva per la prima volta?
A me è accaduto a Copenhagen e non per il conosciuto fenomeno del “dejà vu”, ma perché quella città, adagiata sulle acque dei mari del Nord, è vissuta dentro di me fin dagli anni dell’infanzia con un’urgenza fantastica, una potenza visionaria che non provenivano certo dai libri di geografia della scuola elementare (che io non ho mai frequentato. Ma questa è un’altra storia) bensì dal lavoro congiunto di Danny Kaye e Italo Calvino.
Questi due celebri signori non si sono mai conosciuti di persona, ma assieme hanno contribuito a creare, nella bimbetta di otto anni che io ero, l’idea che a Copenhagen potesse succedere ogni prodigio. Che le lacrime diventassero diamanti; che le sirene potessero sorgere dal mare e riposarsi su uno scoglio.
Le “fiabe” di Calvino e le “malinconie” di Danny Kaye
Fu infatti Italo Calvino, quando era redattore alla Einaudi, a volere che si editassero in forma di strenna (era il 1954) tutte le fiabe di Andersen.
Volume di settecentonovantatre pagine scritte fitte, che mi fu regalato la sera di Capodanno da un ammiratore di mia madre e che io finii di leggere la mattina della Befana.
A condurmi per mano in quell’impresa, a volte ardua (Andersen è un favolista dolente, spesso amaro e ancora ricordo le mie lacrime sulla tragica fine del soldatino di stagno) era stato il ricordo di un film di Charles Vidor, visto due anni prima, intitolato “Il favoloso Andersen” e interpretato da Danny Kaye.
Il fatidico Mereghetti, bibbia acclarata di tutti i cinofili d’Italia, lo definisce “film malinconico e lontanissimo dalla reale biografia di Andersen”.
Resta il fatto che vedere una ballerina che volava verso l’alto del palcoscenico, là dove il mare finiva e s’affacciava la luce del sole, provocò nel mio animo di spettatrice in erba un’emozione lancinante e indimenticabile.
Karen Blixen, la danese d’Africa
Copenhagen non mi apparteneva soltanto perché ci abitava Andersen.
Ma anche perché poco lontano, a soli trenta chilometri, per la precisione a Rungstedlund, era nata Karen Dinesen, divenuta Karen Blixen grazie al matrimonio con il barone Bror von Blixen-Finecke (ma lei ne amava il fratello e Bror fu solo un ripiego).
Sottile, araldico uccello, gran dama decisa a conquistare l’Africa portandosi dietro le sue preziose porcellane Royal Copenhagen, scrittrice capace di fulminanti aforismi (“l’uomo e la donna sono due scrigni chiusi a chiave”) meravigliosa padrona di una casa danese diventata museo nel 1991, Karen Blixen è una donna che ha fatto dell’eleganza una cifra letteraria ed esistenziale.
Come tutte coloro che hanno voluto assumersi i rischi della libertà, anche lei è stata disillusa, tradita, ha sofferto per amore, ma non ha mai reclinato il capo, neppure quando si è inginocchiata davanti al governatore inglese del Kenya, chiedendo un appezzamento di terra per i suoi amici Kikuyu.
Un mito, un esempio, un’eroina per qualsiasi giovane donna che voglia dar fiato alla passione di amare e di vivere.
Tutto questo mi passava per il capo nel ventre dell’aereo che mi portava a Copenhagen. Culla prenatale, luogo sospeso per definizione (nello spazio ma anche nel tempo) limbo adatto ad ospitare attese, speranze, ansie di fuga, l’aereo ha la capacità di precipitarci in uno stato di meta-coscienza in cui ogni speranza è possibile, ogni attesa non è vana, ogni proposito attuabile.
Per una volta avevo accantonato la piccola ansia da “notte prima degli esami” che mi coglie quando affronto una nuova città, un nuovo orizzonte.
L’ansia di sapere il più possibile, di prepararsi bene, di selezionare, scegliere, imparare. Siamo sempre più turisti che passano di corsa e sempre meno viaggiatori che vivono.
Copenhagen dalle mille atmosfere
A Copenhagen avrei vissuto. Prima di tutto la notte bianca che quella sera avrebbe visto aperti tutti i ritrovi, i negozi e i musei.
Appena uscita dall’aeroporto, dove subito s’impone la raffinata tradizione del design e dell’architettura danese, a colpirmi è stata la luce del nord.
Chiara, netta, rarefatta, gentile e implacabile insieme, quella luce costringe noi creature mediterranee a fare i conti con l’alterità di quei luoghi.
A me, veneziana, poteva sembrare familiare passeggiare lungo i canali di quella città. Ma Venezia ha un cuore levantino, speziato, una corrosa peccaminosità che nulla ha a che fare con la pacifica permissività della società danese.
Della notte bianca – in fondo breve: sono una creatura diurna e passata l’una, ero già in albergo – ricordo la magia dei numerosissimi negozi di fiori, illuminati. Vasi piombati, grigi. E fiori lilla, o violetti,
o d’un rosa acidulo, sistemati con quell’eleganza che in questa città è
tanto diffusa.
Altro ricordo carico di grazia: il bianco e blu delle porcellane, disegnate dagli artigiani al lavoro nei negozi. E per contrasto l’abbigliamento provocatorio dei giovani, borchiati, con i capelli disegnati dal gel, i rossetti quasi blu, lo sguardo imbronciato.
Troppo alla moda e troppo leccati per essere i ragazzi dei centri sociali che poco tempo fa hanno avuto violentissimi scontri con la polizia danese, quando ha forzosamente sgomberato il centro sociale Ungdomshuset nel cui stabile (ormai acquistato da un’organizzazione religiosa fondamentalista) per più di venticinque
anni si sono tenute manifestazioni di cultura underground.
Una Sirenetta sfortunata
Da quella contestazione – che è poi rientrata ma che i portavoce della polizia hanno ammesso essere stata durissima – Copenhagen è uscita con la celeberrima statua della sirenetta dipinta di rosa. Uno sfregio a un monumento di non particolare bellezza, abituato per la verità a subire numerosi affronti.
Ai danesi l’opera dello scultore Edvard Eriksen, che nel 1903 la fuse ispirandosi alle fattezze della propria moglie, non è mai piaciuta: nel Sessantaquattro alcuni artisti del “movimento situazionista” segarono e sottrassero la testa della statua, che non fu mai trovata. Da allora non si contano le “amputazioni” e i conseguenti restauri che il monumento ha dovuto subire.
In me, che nel mio giro a Copenhagen ero andata a vederla senza particolare entusiasmo, prevenuta nei confronti di un’icona logorata dal consumo degli sguardi e ben decisa a conservare nella mia mente la sirenetta sognata da Danny Kaye che aveva le fattezze di una giovane Zizi Jeanmaire, non ha provocato nessuna emozione. Pareva, per dirla con Andersen, un giocattolo abbandonato da un bambino distratto e pronto per essere messo in solaio.
Nel segno (o nel “sogno”?) di Andersen
Meglio allora passeggiare – proprio come faceva Andersen – nel parco di Tivoli, che gli ispirò la fiaba “L’usignolo”. Oppure sedersi in uno dei tanti caffè sui canali, mangiando pane, burro e aringhe.
Certo, Copenhagen è città di musei, di pinacoteche, di squisito design, di innovative architetture; basta solo pensare al “diamante nero”, un palazzo di vetro scuro che si proietta con la sua sagoma inclinata, verso l’acqua del più largo dei suoi canali.
Ma per me è soprattutto il luogo di un itinerario mentale, in cui le novelle di Andersen si intersecano con le storie gotiche della Blixen. Un mondo dove tutto può succedere.
Persino che una sirena di bronzo, dopo una notte di guerra, diventi rosa. Info: www.visitdenmark.it/
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