Scenario generale della Settimana Santa: una sfilata di case barocche e di catapecchie pezzenti, sullo sfondo di un vulcano che si chiama Volcán de Agua, ma ogni tanto butta fuoco. Colonna sonora: un suono incessante di flauti e tamburi. Primo protagonista, un Cristo gigantesco, che avanza tra la folla a bordo di una “anda”, una sorta di barca che non ha mai visto né mari né fiumi. Comprimari, decine di “cucuruchos”, robusti giovanotti che portano a spalle l’anda, a turno per non cadere sfiancati. Comparse, centinaia di contadini, che precedono il maxi-Cristo, gettando sulla strada fiori, frutta, mais e rami di caffè.
Il film descritto sopra va in scena tutti gli anni, durante la Settimana Santa, a Ciudad Vieja, nel Sud del Guatemala. Ma va in scena anche altrove: ad Antigua, a Chichicastenango, a San Andrés Sacjcabaj, insomma in tutte le città e paesi dove la gente, più che lo spagnolo ufficiale, parla ancora il “quiché”, idioma degli antichi Maya. Là il dna precolombiano è ancora vivo: non solo nella lingua, ma anche negli occhi a mandorla degli uomini, negli scialli colorati delle donne o nell’uso di portare tutto a spalle, senza carretti, perché i Maya conoscevano benissimo gli astri, ma non la ruota.
Sulle case, mosaici di fiori, frutta, mais e caffè
Oggi Ciudad Vieja è solo un villaggio rurale, diecimila anime in tutto. Ma fino a 467 anni fa era nientemeno che la capitale del Paese, fondata da un “conquistador” di nome Pedro de Alvarrado, calato in Guatemala armato di spade e di croci.
Poi il Volcán de Agua decise che la città era troppo vicina al suo cratere e che perciò gli dava fastidio; quindi versò un po’ di lava, fece tremare la terra e i conquistadores furono costretti a traslocare a distanza di sicurezza, fondando un’altra città: l’attuale Antigua, un delizioso ricamo di chiese e palazzi d’epoca, che l’Unesco tutela come “patrimonio dell’umanità”.
Oggi, proprio Antigua è il palcoscenico su cui sfilano le processioni più imponenti che precedono la Pasqua: dalla Domenica delle Palme in poi, ogni giorno della Settimana Santa ciascuna chiesa della città organizza la sua, portando per le vie un suo Cristo o una sua Madonna. E le chiese sono tante che per sette giorni l’intera città è preclusa a ogni veicolo diverso dalle “andas”. Anche perché qui l’offerta di fiori-frutta-mais-caffè non avviene all’ultimo momento come a Ciudad Vieja, ma per mano di autentici artisti, che tappezzano le strade di mosaici vegetali, ciascuno dei quali richiede ore di lavoro e di blocco del traffico.
Carri pesantissimi e penitenze cruente
Per la Settimana Santa le parrocchie della città fanno a gara per stupire, senza badare a spese: attorno alle andas, tra nuvole di incenso, sfilano flagellanti, cavalieri vestiti da legionari romani e “nazarenos” (fedeli incappucciati). E ogni chiesa ha un suo primato: l’Escuela de Cristo possiede l’anda più grande (è lunga quindici metri, pesa otto tonnellate e per reggerla servono ottanta cucuruchos per volta); la Catedral organizza la processione più affollata, che il venerdì sfila per tre ore al ritmo di musiche di Chopin; La Merced, infine, vanta la statua più amata, un Gesù con capelli veri, scolpito nel 1650 da tale Alonzo de la Paz.
Apriamo una parentesi. I flagellanti di Antigua stanno solo mimando un atto di penitenza, che sembra cruento ma in realtà non lo è. Altrove però c’è chi la penitenza la fa davvero, con un furore che sembra preso pari pari dal Medio Evo o dalla Controriforma: in certi villaggi sfilano “gateadores” che seguono le andas camminando a gattoni; in altri si vedono peccatori pentiti che portano a spalle una croce dopo essersi legati le gambe con catene; e a San Andrés Sacjcabaj, caso estremo, c’è chi si incorona di spine, facendo colare dalla fronte sangue verissimo. Chiusa la parentesi.
La Madonna, nuova “Pacha Mama”
Qualunque sia la statua che guida i cortei, qualunque sia il ruolo di chi li segue, lo slogan che li accompagna è ovunque lo stesso: “Tuyo el reino, el poder y la gloria”. La traduzione è intuitiva. Se Pedro de Alvarrado rivivesse oggi e vedesse quelle processioni, forse esulterebbe: lui, conquistador del Guatemala in nome della croce cristiana, potrebbe dire di avere raggiunto il suo obiettivo, perché in tutto il mondo solo la spagnola Andalusia celebra la Pasqua con riti così imponenti e partecipati. Ma davvero i pronipoti degli “idolatri” Maya sono cattolici come sembra a prima vista? C’è chi avanza qualche dubbio: “Nelle processioni della Settimana Santa – osserva Marino Catelan, un italiano emigrato a Ciudad Vieja, autore di due libri sulla cultura maya – solo la forma è di origine spagnola. La sostanza no. Certo, le statue sacre portate in corteo sono cattoliche, gli slogan e gli inni religiosi anche. Ma l’offerta di fiori e frutti no: quello è un tipico rito maya. Una volta la gente faceva così con Pacha Mama, la Madre Terra, massima dea indigena. E quando i conquistadores imposero l’immagine della Madonna, i contadini continuarono con la nuova Pacha Mama ciò che facevano prima”.
Nel ricordo e nel cuore, i riti Maya
Detta così, sembra una tesi estrema e semplicistica. Eppure qualcosa di vero c’è senz’altro, perché in Guatemala gli spagnoli vinsero ma non convinsero: “Vennero a far appassire i nostri fiori / perché vivesse il loro” recita una vecchia e malinconica poesia locale, scritta dopo l’invasione, avvenuta nell’anno 4638 del calendario Maya, che per i conquistadores era solo il 1523. Quei due versi sono illuminanti: per salvare i loro “fiori” perdenti, i discendenti dei Maya li travestirono da “fiori” vincenti, poi hanno continuato a coltivarli sotto mentite spoglie per cinque secoli, fino ai nostri giorni.
Lontano da Antigua, nella città di montagna di Chichicastenango, qualcosa del genere sta continuando tuttora, in forma ancora più evidente. Lassù, a più di duemila metri di altezza, ci sono due chiese (Calvario e San Tomás) sorte sulle rovine di due templi, che guardavano una collina sacra a Huyup Tak’ah, dio Maya del mais. Ebbene: in quelle chiese, alcune statue nate come “idoli pagani” sono state riciclate per far corona ai santi cristiani. E una volta l’anno, alla stagione del raccolto, il parroco locale sale a celebrare messa sulla collina dove i Maya facevano sacrifici a Huyup Tak’ah.
Cattolici si, ma a modo loro
Se Pedro de Alvarrado rivivesse oggi, probabilmente non noterebbe queste cose: troppo militare, troppo chiuso nelle sue incrollabili certezze da vincente, troppo insensibile a percepire la cultura altrui. Ma non molti anni fa papa Giovanni Paolo II, che di Pedro era molto più intelligente, si rese conto del sincretismo religioso presente in Guatemala e dei pericoli che ne derivavano per l’ortodossia cattolica: tanto che richiamò il clero locale a maggior rigore nell’uso di riti e simboli sacri.
Un richiamo peraltro inutile, perché a Chichicastenango e paraggi tutto è continuato più o meno come prima.
Così le Madonne guatemalteche continuano a uscire in processione e la gente continua a infiorarle pensando alla Madre Terra. Chi viene dall’altra parte del mondo guarda, fotografa e non capisce che quello che vede non è un atto di fervore cattolico, né tanto meno una manifestazione folcloristica. Eppure, se chi assiste fosse più attento ai profumi, si renderebbe conto che le nuvole che avvolgono le processioni non sono di incenso, come sembra, ma di un suo equivalente centro-americano, il “copal”. Lo usavano già prima dei conquistadores, ma Pedro de Alvarrado non lo sapeva.
La fine del mondo, per i Maya, è prevista nel 2012
La civiltà Maya propriamente detta non fu distrutta dall’arrivo degli spagnoli: infatti aveva conosciuto l’apice fra il 200 e il 900; poi era declinata, frammentandosi in piccole etnìe rivali fra loro. Il mistero che circonda la fine di quel popolo deriva anche dal fatto che la sua scrittura, basata su ottocento ideogrammi, non è stata del tutto decifrata. Del sistema matematico Maya, invece, si sa tutto: che era basato sul 20 e suoi multipli, invece che sul 10; che le cifre scritte erano solo tre (0, 1 e 5); che il 20 era importante anche per il calendario annuale, formato da 18 mesi, appunto di 20 giorni ciascuno, più 5 giorni liberi. I siti archeologici Maya più importanti in Guatemala sono Quirigua (a est), Tikal e Uaxactún (a nord). Un’ultima curiosità: il calendario Maya prevede la fine del mondo per il 23 dicembre del 2012. Se volete andare in Guatemala, partite prima.
Il dio alato Quetzal diventa una moneta
Una delle divinità Maya che si adoravano in Guatemala prima dell’arrivo degli spagnoli era il “quetzal”, uno splendido uccello verde con la coda lunga un metro, che gli ornitologi moderni chiamano “Pharomachrus mocinno”. Secoli fa la specie era abbastanza comune, ma le successive modifiche dell’habitat la ridussero al lumicino: amante della penombra delle foreste più fitte, il quetzal non si adattava infatti agli spazi aperti creati dai diboscamenti massicci operati dagli agricoltori. Oggi chi vuol vedere l’ex-dio dalla lunga coda lo può trovare solo nelle foreste che si stendono intorno a Baja e ad Alta Verapaz: altrove la specie è estinta. Eppure, sia pure tardivamente, i guatemaltechi hanno tributato all’uccello sacro dei Maya i dovuti onori, chiamando col suo nome la moneta nazionale: il quetzal, appunto.
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