Telefoni cellulari: paga chi chiama e chi riceve
Immediato anche il successo dei cellulari, con lunghe code agli uffici di Etecsa, la società di telecomunicazione cubana (da molti anni partecipata da Telecom Italia) che agisce nella telefonia mobile con il marchio Cubacel.
In realtà, negli ultimi anni il cellulare – vero status symbol, valorizzato a dismisura dal suo costo e dal divieto – si era già molto diffuso. Era sufficiente intestare la linea a un cittadino straniero per poterlo tranquillamente utilizzare. Sul mercato nero – quello della “calle”, la strada, dove l’immaginazione e il senso pratico di venditori e acquirenti trova la sua massima espressione – era semplice trovare cellulari all’ultimo grido già intestati e attivi, anche in affitto. Altro discorso era mantenerlo: il costo, di per sé elevato e comunque sempre senza proporzione rispetto ai miseri redditi legali, va raddoppiato, perché a Cuba, forse unico Paese al mondo, paga sia chi chiama sia chi riceve la telefonata.
Il comportamento più diffuso è dunque molto semplice: si guarda sul display il numero del chiamante, non si risponde, e si richiama da un telefono pubblico o da casa. Il costo delle chiamate dal fisso è infatti praticamente nullo. In caso di necessità, gli sms sono provvidenziali. L’imprevedibilità di regolari flussi di denaro nelle tasche dei cubani fa sì che molti telefoni, una volta finita la ricarica, restino inattivi.
Così Cubacel preme i suoi clienti con una richiesta ultimativa: se non si versa del denaro entro due mesi, vengono disattivate le chiamate; se non si versa entro tre, viene annullato l’abbonamento, che dovrà essere rifatto ex novo (il costo del contratto è intorno ai cento dollari). In questi giorni a tutti i cellulari sta arrivando un messaggio di Cubacel che invita a una verifica del contratto e del reale utilizzatore dell’apparecchio; la “pulizia” che ne deriverà porterà ulteriori, ingenti entrate nelle casse del gestore telefonico.
Gli anni “duri” dell’apagòn
La liberalizzazione all’acquisto di molti elettrodomestici è stata motivata dal regime con la maggiore disponibilità di energia elettrica. Anche ammesso che sia una motivazione piuttosto fittizia, è comunque vero che l’ “apagòn” (quello che noi chiamiamo black-out, dal verbo spagnolo “apagar”, spegnere) è molto meno frequente di un tempo. Prima, una decina di anni fa, colpiva improvvisamente, sprofondando nel buio interi quartieri o interi villaggi; chi studiava doveva andarsene a letto, chi guardava una “pelicula” alla TV doveva rinunciare a sapere come andava a finire. L’apagòn non risparmiava nessuno: né le discoteche, dove centinaia di ragazzi erano bloccati in surreali silenzi di massa, né i rulli di riconsegna dei bagagli all’aeroporto, che immobilizzavano centinaia di turisti per volta.
Negli anni, il primo progresso fu quello di programmare l’apagòn con un calendario settimanale che consentisse da un lato di risparmiare energia (il vero scopo) dall’altro alle persone di potersi regolare. Le centrali elettriche sono alimentate prevalentemente a petrolio; e in questo senso le forniture provenienti dal Venezuela, grazie anche all’affetto filiale di Hugo Chavez per Fidel Castro, sono state decisive. Così oggi è molto raro che la luce salti.