Sabato 20 Aprile 2024 - Anno XXII

C’era una volta “Beijing”

Beijing Jakub Hałun

Sta per esplodere, sulle Tv del mondo, la Pechino delle Olimpiadi. Con le gare, i colori, la folla, le luci, vedremo scorci della nuova città “globale e verticale”. Ben diversa dalla Pechino dell’età di mezzo, quando l’occidente era ancora lontano

Beijing bicylists
Bici a Beijing

Si chiamava Zhongdu (capitale centrale) in tempi antichi, e poi Dadu (grande capitale) Khanbalic (città del khan) ai tempi di Marco Polo; poi ancora Shuntian, cioè “obbediente al Cielo”, ai tempi di Matteo Ricci e dei Gesuiti. Poi Beiping, cioè “pace del nord” sotto il Kuomintang, il partito nazionalista di Chiang Kai Shek. Infine, Beijing (capitale del nord) come in alcuni periodi della sua storia e, definitivamente, con la Repubblica Popolare di Mao (dal 1949).

Beijing una metropoli dalle molte “pelli”

Beijing
Beijing

Nessuna città al mondo come Beijingha forse ha cambiato la sua pelle, e la sua anima (capitale-non capitale, città della burocrazia, del sapere filosofico, icona dell’austerità comunista) così tante volte. A ogni conquistatore, a ogni nuova dinastia o governo, si rinominava, per sottolineare o per disconoscere il suo ruolo di capitale del potere precedente.
Lontana dalle città del commercio – ora città dell’economia globale – come Shang Hai e Hong Kong. Città del potere, imperiale (e poi comunista) più lungamente e più a ragione di altre, che ha conservato per secoli le sue mura, abbattute solo da Mao nel 1957, come un novello Napoleone. C’è una bella foto in bianconero di Pajetta, inviato del PCI alla corte di Mao, che racconta di quelle mura, dello stupore come di fronte alla “città dei Tartari”.

Da Mao alla Rivoluzione Culturale

Beijing L'immagine di Mao alla Città Proibita
L’immagine di Mao alla Città Proibita

Tempi andati. Quando la città era fatta di isole, gruppi di case di pietra grigia e tegole grigie, di vialetti sterrati, di grandi case padronali alla cinese, con muro e giardino interno e i monumenti della tradizione imperiale. Le mura erano andate giù, ed erano sorti vialoni e parchi, palazzi enormi nello stile mortificante del socialismo. E una marea di biciclette e una marea di divise blu o verdi, il cappello con una grande stella rossa, le donne con il seno fasciato, per diventare anch’esse “l’uomo nuovo”. Passata la marea ondivaga del maoismo, dai Cento Fiori alla Rivoluzione Culturale (Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, per essere precisi) instaurati i nuovi poteri di cauta apertura ai tempi e al mondo di Deng Xiao Ping, ecco la Cina di metà degli Ottanta.

Il Grande Drago moderno (e capitalista)

Beijing, crescita verticale
Beijing, crescita verticale

È a quella Cina, a quella Beijing oggi Pechino che vogliamo tornare, per averla vissuta, e perché è stata l’inizio del cambiamento, che è rappresentato da due dati concreti ma anche simbolici dell’oggi: la Cina come grande creditrice degli Stati Uniti, e la Shang Hai School of Economics che attira più studenti dell’omonima di Londra. Che sarebbe come dire che si va a studiare il capitalismo e i suoi meccanismi nel luogo che solo vent’anni fa ne era nemico giurato. E i Giochi Olimpici non sono altro che un tributo, simbolico, alla strapotenza economica della Cina. Olimpiadi politiche, di politica economica, o anche tout court, come dimostra la vicenda del Tibet.

Ma che relazione c’è tra lo Stadio Olimpico, il magnifico, onirico, “nido d’uccello” di Herzog e De Meuron, e la Pechino degli Ottanta? Nulla, se non che già allora si intuiva che sarebbe finita così. C’è un film, “Beijing bicycle” (2001) di Wang Xiaoshuai, che coglie la capitale nell’indefinito cambiamento, tra le vecchie case ridotte a ghetto e la bici che diventa status, in attesa della puzzolente invadenza delle auto. Ma, già allora, c’erano le vie larghe, pensate per un traffico che ora dispiega tutta la sua invadenza e gli svincoli a spirale, all’americana e case alte, di periferia moderna. Ma le auto erano i taxi, Toyota e Honda, o quelle straniere o ufficiali, e i viali pechinesi erano un contenitore di bici nere, dal manubrio cromato e dalla targa rossa: “Beijijng 84237…”.

Tutti in bici, appassionatamente

Beijing Un mare di biciclette
Un mare di biciclette

Uno spettacolo, vederle, quelle bici, che come un sol uomo avanzavano, curvavano, frenavano. Se c’è un’immagine per “brulicare”, era proprio quella. Ma era, quando ne eri parte, la situazione più divertente. Pedalavi, alla velocità di tutti gli altri, come un gregario nel gruppone della Parigi-Roubaix e dovevi preparare con molto anticipo la svolta, che avveniva, peraltro, collettivamente. Come se una parte del “serpente” avesse deciso di lasciare il corpo principale, per seguire altre strade. Anche i bus erano particolari. Vecchi snodati, lenti e inquinanti, pieni di gente accalcata, che rendeva un’impresa la salita a bordo.

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Con i cartelli “vietato sputare” in bella evidenza, vista l’abitudine locale. E con la pantomima ammaliatrice della venditrice di biglietti, che cantava il suo invito, come se insistendo con la cantilena potesse convincere tutti all’acquisto e vincere la materia, che palesemente impediva a chi era appena salito di portarsi vicino alla sua postazione. Il “piao” (biglietto) delle bigliettaie era il canto delle sirene, modulato come in un mercato di verdure o come nelle voci dei fruttivendoli sui camion che battono le città di provincia. Una sinfonia popolare della “vecchia Pechino socialista”, che dava un senso alla vita in città.

La Pechino delle prime “aperture”

Beijing Dong Chang'an Hotel
Dong Chang’an Hotel

Al tempo, ci si trovava negli hotel per occidentali. Come il vecchio “Beijing”, nella Chang An e vicino alla piazza Tian An Men, costruito come immagine cinese da offrire agli ospiti: una Cina finta, oleografica e puritana, gerarchica come ai tempi dell’imperatore, impaurita da sé stessa, delatrice. Insomma, fatto apposta per l’occidentale che vuole sentirsi in missione all’estero, con quel tanto di mistero e di esotismo da far titillare l’immaginario. E poi nei grattacieli che cominciavano a “raspare” un cielo ancora blu, nonostante l’uso spropositato di carbone quale fonte energetica per le fabbriche e il riscaldamento.

Come gli hotel Lido o Kunlun, che avevano aperto nientemeno che discoteche, con veri “dj” occidentali, che davano il senso del proibito (ai cinesi) e mescolavano businessmen giapponesi con addetti culturali belgi, studenti inglesi con impiegati dell’ambasciata canadese. E le canzoni di Madonna trasgredivano e facevano trasgredire anche sotto il cielo pechinese. Se poi si voleva esagerare, a riprova che spesso si copia la caricatura delle abitudini degli altri, c’era il Chez Maxim francese (di Pierre Cardin, esiste ancora al numero 2 di Chongwenmen Xi Da Jie) che i cinesi chiamavano “mǎ kè xī mǔ”, cui rispondeva Al Toulà, veneto e italiano. Oggi, l’offerta pechinese è da grande capitale internazionale, decine di hotel lusso five star, centinaia di ristoranti francesi, italiani, fusion eccetera.

Le “comunità” del pane e del riso

Beijing Friendship store
Friendship store

Ma era intorno al Magazzino dell’Amicizia (17 Jiangguomenwai Dajie) nel quartiere delle ambasciate, che si concentrava la “nostalgia” degli Occidentali. Una specie di ritrovo super partes, in cui si respirava una Cina da cartolina, come quella descritta in certi romanzi di Pearl Buck. Cina di buoni sentimenti e ai buoni prezzi del negozio in cui trovavi libri cinesi in inglese e francese, un artigianato standard, ma che serviva allo scopo, visto che all’estero di cinese arrivava quasi nulla. E poi alcuni piccoli “vizi” occidentali, come le baguette francesi, i vermuth di Torino, la cioccolata svizzera, cereali americani, pellicole fotografiche giapponesi.

Normale che al Magazzino dell’Amicizia si rinsaldassero amicizie, ma tra occidentali, visto che tutti coloro che passavano per la capitale ci facevano un salto. Per escludere i locali, si pagava in “fec”, i certificati di scambio che la Banca di Cina emetteva, non essendo lo yuan scambiabile a livello internazionale. Passare al Magazzino era come dichiararsi membro della “comunità del pane”, in opposizione alla “comunità del riso” locale. Provare oggi, magari per gli articoli della medicina tradizionale cinese.

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Il “progresso” avanza, con il Compagno Deng

Beijing Xiu Shui market
Xiu Shui market

Poi c’era l’International Club: piscina, campi da tennis, ristoranti, ampi saloni, quasi un residuato dei tempi della “Rivolta dei Boxer” (1900). Ma non c’era aria di fronda, non c’era un sentimento antioccidentale. Anzi, dopo i decenni maoisti di isolamento e dopo aver constatato che la tecnologia occidentale portava a una ricchezza diffusa, i Cinesi sembravano voler timidamente chiedere “permesso” e accomodarsi nella “camera del Progresso”. Le aperture di Deng Xiao Ping, l’apertura delle zone economiche speciali (il capitalismo di Shenzhen) le trattative per riportare Hong Kong alla madrepatria, sembravano preludere a un cammino verso il benessere, copiando gli occidentali. Bastava andare al mercatino di Xiu Shui, sempre nella zona delle ambasciate, per capire. Capi in seta di stilisti italiani e francesi, giacche a vento di piumino di firme europee, oggetti di gusto occidentale riempivano i banchi, a prezzi cinesi e con il supporto del mercato nero.

Gli anni della Pechino “brulicante”

Un piatto di jiaozi e soia
Un piatto di jiaozi e soia

Al quartiere del Ponte del Cielo c’era la città dell’immaginazione. Quella delle case basse e grigie, dei tetti a pagoda, dei vicoli sterrati, dei crocchi di venditori e compratori, delle bici portate a mano e dei campanelli a suono continuo, dei negozi di porcellana ed erboristeria, dei ristorantini con la pareti annerite e i piatti di “jiaozi”, i ravioli cinesi dal sapore inconfondibile che uscivano da pentoloni per immergersi subito in salsa di soia nera come pece.

C’era quella Cina eterna, povera e brulicante, che valeva il viaggio. E poi l’Opera di Pechino, secondo la tradizione cinese: musica, poesia, canzone, danza, acrobazia, rispettando colori e gesti rituali, con l’arte scenica che raggiunge livelli di eccellenza. C’erano piccoli teatri, popolari, sempre pieni, che davano il gusto della partecipazione. Il pubblico interveniva e commentava ad alta voce, quasi che la meraviglia scenica andasse a toccare animi semplici e li facesse sussultare ed esclamare, come doveva essere il teatro europeo pre-borghese, quello di Shakespeare per tutti.

L’impronta di Li Madou (Matteo Ricci)

La Tomba di Matteo Ricci
La Tomba di Matteo Ricci

Ma erano anche le tracce cristiane a dare il senso del legame con l’Occidente. Come se in un mare di segni incongrui spuntasse qualcosa di familiare, di identitario. Ecco com’era andata la storia.
“Nel secondo mese (del 1601) l’eunuco Ma Tang portò alla Corte Li Madou (Matteo Ricci) un uomo dell’Oceano Occidentale che aveva dei doni preziosi per l’Imperatore…” recita la “Storia della Dinastia Ming”.

Matteo Ricci, l’Occidentale. Da Macerata, Marche. Il Padre gesuita che, via Macao, osa penetrare nel Celeste Impero, ripristinando i contatti Cina-Occidente, interrotti dopo Marco Polo, affidati solo ai mercanti lungo la Via della Seta. Il gesuita sceglie Pechino per intraprendere la sua missione di evangelizzatore, perché sa che la Cina è un mondo chiuso e centralizzato. Inizia così un rapporto tra la Yeshu Hui (Compagnia di Gesù) e l’Imperatore, la Corte, i Mandarini che amministrano il culto e i riti, che durerà fino allo scioglimento della Compagnia stessa, nel 1773.

Le “mirabilia” dei Gesuiti

Osservatorio-astronomico
Osservatorio-astronomico

Quel che resta a Pechino non è poco. Si comincia dall’Osservatorio astronomico imperiale, un po’ sommerso dalla invadente nuova città, lungo la via Chang’an. Non che i cinesi non fossero buoni astronomi, anzi. Lo erano, per la navigazione, per il calendario e per i riti: un matrimonio, un funerale, la scelta del sito per una casa, una tomba. Adam Shall, gesuita di Colonia, arriva a Pechino nel 1622 e viene messo a dirigere l’osservatorio. Lontano da Roma, può leggere Keplero e la sua teoria eliocentrica, condannata dalla Chiesa. E il suo collega belga,  Ferdinando Verbiest, costruisce gli strumenti in rame che stanno sulla terrazza dell’Osservatorio: un’armilla equatoriale per determinare il tempo solare reale, un globo per stabilire l’azimut dei corpi celesti, un quadrante per verificare la distanza zenitale.

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È proprio il contributo scientifico a mantenere aperta la porta dell’Impero. È una missione diversa da quella nelle altre parti del mondo. Grazie ai servigi resi, l’Imperatore autorizza i gesuiti a praticare la loro religione, e così Shall costruisce una chiesa barocca (1652) dedicata al Salvatore, con un altare laterale dedicato all’arcangelo Michele, nominato protettore della Cina. Ciò che fa dire all’Imperatore che gli Occidentali sono superstiziosi come i cinesi, visto che adorano creature alate fantastiche….

Chiese cattoliche nel tessuto urbano

Beijing La chiesa Nantang
La chiesa Nantang

La chiesa Nantang (Chiesa del Sud, 181 Qianmenxi) che comprende la tomba di Matteo Ricci, viene rifatta nel 1703, con annesso il Collegio dei Gesuiti portoghesi.È qui che padre Castiglione da Milano dipinge il “Trionfo di Costantino” e due affreschi nella tecnica del trompe-l-oeil che hanno un grande impatto come confronto con la tecnica pittorica cinese. E poi ancora rimaneggiata nel 1904, in neogotico.

È la Cattedrale di Pechino, la sede dell’Associazione Cattolica Patriottica Cinese. I messali sono in caratteri e gli inni che si levano al cielo invocano Maliya (Maria). Poi arrivarono i gesuiti francesi, mandati dal Re Sole, che costruirono la Beitang, la Chiesa del Nord, distrutta a inizio Ottocento. E altri padri la Dongtang, la Chiesa dell’Est, dedicata a San Giuseppe e progettata dal padre fiorentino Bonaventura Moggi. Distrutta e restaurata, si poteva visitare al tempo e si può visitare oggi, anche per le messe, in Wangfujiing Dajie 74.

Palazzi “europei” per gli imperatori

Rovine di palazzi nel Parco della Perfezione Radiosa
Rovine di palazzi nel Parco della Perfezione Radiosa

Già, i gesuiti. Prendono nomi cinesi, si vestono come dignitari, accettano gli onori della Corte, fondono cannoni per le guerre imperiali, legittimano il rito cinese del culto degli antenati. Si integrano e studiano a fondo la cultura cinese. Quelli francesi ne fanno un affresco imponente in trentaquattro volumi che Voltaire e Leibnitz traducono nel mito del “Paese governato dai letterati” che, insieme alle porcellane, dà inizio alla passione per le cineserie, per i padiglioni o gabinetti cinesi che ogni monarca vorrà avere. Per contro, i francesi parlano di Versailles all’Imperatore. E questi, affascinato, fa costruire la sua, di Versailles.

Sono i Palazzi europei (Xiyanglou, Palazzi d’Estate alle Colline Profumate, 1747-1783) sintesi di barocco europeo e stile ridondante della decadenza cinese. Sono i gesuiti a progettarli e costruirli, come architetti del sovrano. Castiglione, Moggi, Benoist, Sickelpart disegnano un’opera “fusion”, partendo dal Parco della Perfezione Radiosa (Yuanmingyuan) con i suoi cento palazzi e integrandolo con fontana e obelischi; il Palazzo delle Delizie e dell’Armonia, con maiolica, marmo e motivi corinzi, la galleria a vetrate, il labirinto con chiosco centrale; il Palazzo del Mare Calmo, con un orologio idraulico con i dodici animali delle ore cinesi. Interni con arazzi, specchi, oggetti europei.

Oggi in rovina. Grazie agli Europei

Beijing Prince_GongInsomma, il contraltare, in scala esponenziale, dei padiglioni cinesi delle corti europee. Strabiliante non solo per l’impatto scenico ma, soprattutto, per il credito culturale che viene concesso all’Europa, da sempre ritenuta inferiore in tutti i campi.La vendetta, stupida, arriva con la Seconda Guerra dell’Oppio, nel 1860: Lord Elgin, figlio di colui che aveva rubato i fregi del Partenone, con il suo contingente anglo-francese mette a ferro e a fuoco i palazzi imperiali, radendo al suolo la meraviglia pechinese.

Restano le rovine, meravigliose, alcune delle quali rimesse in piedi parzialmente. E resta una storia, decifrabile, di una collaborazione artistica senza uguali. Da vedere, anche oggi.
Chissà che qualcuno, durante o dopo le Olimpiadi, non trovi il tempo per cercare frammenti di quella Beijing del cuore.

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