Convivenze difficili
Torniamo ad Algeri. Malgrado sia geograficamente “periferica”, rispetto all’insieme del Paese, si può affermare che il soffio politico, religioso e sociale che dalla capitale trae origine, arrivi a condizionare vita e sviluppo dell’intero territorio algerino. Ed è un soffio che non è propriamente di pace, purtroppo.
Omar, il mio accompagnatore, con il suo italiano ondeggiante ma buono (che nei momenti di imbarazzo o concitazione scivola nel francese) si sforza di spiegarmi che il clima in Algeri, non quello meteorologico, è notevolmente migliorato, in questi ultimi tempi, anche se le cronache degli anni recenti hanno registrato altri massacri, nuove imboscate ed hanno lasciato inevase, o parzialmente accettate, le numerose istanze di maggior democrazia.
Si passeggia per le strade prossime al porto, al centro commerciale, su, fino alla Casbah, circondati da cinque-sei poliziotti in borghese che ci tallonano e girano lo sguardo in continuazione, per evitare sorprese. Questa “normalità” è fatta anche di ripetuti e sfibranti controlli negli aeroporti (bagagli, metal detector, ispezioni personali, apertura di sacche e pacchetti, fino alla scaletta dell’aereo). Persino gli hotel hanno un metal detector all’ingresso e alcuni impiegati che esaminano i bagagli prima di accedere al banco della reception.
Strapotere dei “militari”
Eppure gli algerini sono dappertutto. L’animazione delle vie, dei negozi, dei venditori ambulanti, è incredibile. Pare quasi che la popolazione si sforzi di apparire convinta che nulla più potrà succedere, se la presenza corale sarà continua e, soprattutto, intensa.
Spiega, il buon Omar, che gli integralismi algerini sono tre e tutti, indistintamente, tendono a minare le fondamenta della convivenza civile, per opposte ragioni che mal si conciliano tra loro.
In sette anni di “guerra civile” (Omar preferisce parlare di un più asettico “terrorismo”) vi sono stati più di centomila morti ammazzati; non occorre per pudore dire in quale modo sia avvenuta la maggior parte di queste vere e proprie esecuzioni.
L’integralismo militare, in primo luogo, diretta eredità distorta che
arriva dalla cruenta guerra di liberazione condotta contro i francesi
(1954-1962) resa famosa in Italia dal film di Pontecorvo (La battaglia
d’Algeri). Auto investitasi di potere reale, la casta dei militari ha
prodotto anche un potere occulto che ha agito per anni a margine delle
istituzioni e al di fuori della legge. Per oltre quarant’anni, l’armata
ha tracciato gli orientamenti politici, prese le decisioni più
importanti e supervisionato le politiche adottate dai governanti,
affinando le proprie tecniche alle scuole del KGB ex-sovietico, della
Stasi della ex-Repubblica Democratica tedesca, della Securitate romena
dei tempi di Ceausescu. Il passo successivo e per certi versi logico ha
visto il proliferare di una casta militare corrotta che si concedeva
privilegi d’ogni genere (stipendi, ville, autovetture, terreni
costruibili in zone protette o agricole opportunamente declassate).
Tutto al di fuori dei già notevoli budget stanziati per la difesa. Per
anni, ciò che riguardava le forze armate, era semplicemente tabù.