Giovedì 21 Novembre 2024 - Anno XXII

In groppa al mondo

Elefante-in-groppa-al-mondo

Aerei, treni, bus, auto, moto, persino le bici, per raggiungere mete lontane, dove vive un’infinita varietà di quadrupedi. C’è però chi cerca “anche” il contatto con le pelli lisce o irsute di questi animali, dialogandovi con gli sguardi…

Taj Mahal ad Agra
Taj Mahal ad Agra

A cavalcioni di quel collo largo e possente. Cullata da un incedere ondeggiante e sicuro. I piedi che penzolavano uno di qua e uno di là. Mi sentivo in groppa al mondo: fuori dal divanetto dove di solito si ammucchiano i turisti, stavo  su un elefante nello stesso modo in cui c’era stato il Kim di Kipling, Sandokan, o qualche cacciatore di tigri.

Avevo conquistato quel privilegio con una lunga e difficile trattativa. Un misto di preghiere, di corruttele (denaro, due rullini fotografici 400 asa e due pacchetti di sigarette in aggiunta al normale biglietto) a cui l’indiano che conduceva il pachiderma aveva continuato a sottrarsi, con un inglese approssimativo, esattamente quanto il mio.

Un elefante “conquistato”…
In groppa a un elefante
In groppa a un elefante

C’era, in quel dialogo, un’aria da “Pasqualino Marajà”, un’atmosfera da canzone di Carosone. L’uomo continuava ad arraffare le mie offerte. Ma non si decideva: l’elefante non era suo, la licenza per portare i turisti su per la polverosa strada che saliva al forte Amber non era intestata a lui… e se fosse successo qualcosa, se fossi caduta a terra, se mi fosse girata la testa…. no, non si poteva fare.

A convincerlo non fu il terzo pacchetto di sigarette (erano Senior Service, le fumava il mio compagno di viaggio, per niente d’accordo con quel baratto che impoveriva le sue scorte già insufficienti) ma una foto che tirai fuori dal portafoglio in cui mi si vedeva galoppare su un cavalluccio noleggiato su una spiaggia thailandese.
La prova che sapevo stare in equilibrio in grappa a un animale, che non avrei combinato pasticci, che insomma l’eccezione si poteva fare, proprio in omaggio alla regola.

Proboscide in technicolor
Jaipur, capitale del Rajasthan in groppa
Jaipur, capitale del Rajasthan

La strada che solcava il verde Rajastan (eravamo ai primi di gennaio e nel nord dell’India si stava come da noi ai primi di aprile) il lento appropinquarsi del forte, che all’esterno appare massiccio e che all’interno dispiega le sue meraviglie come un’ostrica che riveli una magnifica perla, io li ho vissuti a cavalcioni del collo di un elefante.
Con la sua proboscide meravigliosamente decorata di colori naturali.

Con la pazienza con cui poggiava a terra il suo grigio e culacciuto deretano. E anche con la delicata degnazione con cui gradiva la frutta che m’ero portata per pranzo e che invece destinai tutta a lui. Quell’elefante s’è impresso indelebilmente nella mia memoria. È lui il capo di un branco eterogeneo di animali che ho incontrato e montato in giro per il mondo. Gli elefanti hanno vita lunga e così io penso che il “mio” elefante sia ancora ad Amber. E che un giorno, se volessi, potrei andare a cercarlo.

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In groppa al cavallo delle Piramidi
Il Cairo
Il Cairo

Chissà invece cosa ne è del cavalluccio che ho montato sotto le piramidi del Cairo: magro, nervoso, con una imboccatura prepotente, scelta per costringerlo alla calma, quel grigio aveva gli occhi scuri come more d’agosto. Occhi inquieti, non rassegnati.
Avrebbe dovuto lavorare di meno, mangiare di più. Ma la durezza della sua esistenza non aveva spento in lui il fuoco che anima ogni cavallo arabo.

Confesso di avere un pessimo ricordo delle Piramidi, attorniate dalla spazzatura, dai negozi di souvenir, assediate dal rumore, dalla cantilenante e ossessiva richiesta del “bashish”della mancia. Per quel cavallo pagai mezz’ora di nolo, quando la tariffa prevedeva cinque minuti. Il vecchio che me lo noleggiava mi guardava stupito: perché mezz’ora? Pagai in anticipo, gli lasciai in pegno una mia amica, salii su quella sella rigida e scalcinata… e  mollai la mano. Il cavallo impiegò un po’ di tempo a capire che nessuno voleva infastidirlo in bocca: camminava incerto, in attesa di un comando.

Al piccolo trotto, lontani dal “suk” turistico
In groppa Al trotto nella terra delle Piramidi
Al trotto nella terra delle Piramidi

Quelle erano le sue ore di lavoro. Le Piramidi erano il suo ufficio. Dopo cinque minuti – guardai l’orologio: erano cinque minuti esatti e corrispondevano alla fine del suo giro – girò la testa e mi guardò con l’occhio sinistro: “Allora?” sembrava chiedermi. Lo feci camminare per altri quindici minuti: m’ero allontanata dal rumore e pian piano le Piramidi erano tornate ad essere quel maestoso e crudele prodigio che tutti noi sappiamo.

Poi, al ventesimo minuto, con una leggera sollecitazione del tallone, gli chiesi di trottare e poi, finalmente, lo invitai a mettersi al galoppo. Continuando a lasciare lente le redini, in modo che il suo equilibrio fosse naturale e la sua bocca rimanesse  libera da strattoni e coercizioni. Fu un galoppo breve, ma carico di gioia: lui aveva ritrovato l’atavica memoria della sua libertà e io assaporavo la gioia di avergliela procurata, anche soltanto per un istante.

Lungo il Nilo, cavallo, carrozzella e pennacchi
Feluche sul Nilo
Feluche sul Nilo

A furia di insistenze, riuscii ad avere il permesso di accompagnarlo alla scuderia. Una specie di baracchetta tirata su fra due case, battezzata, chissà perché, “Vienna”. Ospitava una decina di cavalli per lo più anziani, magri da fare pietà. Me li sarei voluti portar via tutti quanti, per regalargli una vita migliore. Perfettamente consapevole di versare una goccia nel mare, ma altrettanto decisa a non demordere. Sulle rive del Nilo non sono mai salita su una delle carrozzelle che stazionano alla fermate dei battelli, se il cavallino che aspettava paziente fra le stanghe non era sufficientemente nutrito.

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Ricordo un cocchiere di Esna, che aveva un cavallo bene in carne, proprio come lui. E che accettò – fu pagato per questo, non era  solo buon cuore – di farmi tenere le redini per tutto il viale del lungofiume. Come dimenticare  la strada che ti scorre di sotto, il ritmo cadenzato del trotto, i pennacchi che guarnivano la carrozzina…

In groppa a ciuchi tra le pietre dorate
in groppa Raggiungere Petra in groppa a un somaro foto Foto di Dimitris
Raggiungere Petra in groppa a un somaro foto Foto Dimitris Vetsikas

A Petra, in un febbraio ventoso, ero in groppa a un somarello. La nostra guida, un palestinese di nome Hani, un uomo dalla meravigliosa intelligenza che aveva studiato a Perugia, all’università per stranieri, ci disse che se volevamo capire qualcosa di Petra dovevamo passare per la gola che conduce alla città Nabatea non più tardi delle sei di mattina. Gli obbedimmo. Riuscendo a entrare prima che la folla trasformasse quel meraviglioso sito nel suk delle ore più tarde: assieme a noi c’erano due turiste inglesi, che avevano una settantina d’anni per una.

Decidemmo di noleggiare dei ciuchini, per salire all’altopiano che guarda i territori di Israele. Le due inglesi si fecero portare fin su. A metà strada, quando l’erta si fece molto ripida io decisi che mi sarei sentita molto più a mio agio andando a piedi assieme al mio somarello. Salivamo l’uno accanto all’altro, ed io ero ancora una volta incantata dalla dolcezza dei suoi occhi orlati di nero, come quelli di una donna truccata con il Kajal.

Nelle opulente regioni dell’occidente il ciuco non ha più ragione di esistere e rischia l’estinzione, ma altrove porta il mondo intero sulla sua groppa: contadini, fascine, verdure, bimbi… di tutto e di più. Il ciuco fa parte dei panorami dell’Afghanistan come il cavallo appartiene a quelli dell’Irlanda. Come posso dimenticare la passeggiata in sella a un meraviglioso e robusto quarter horse di nome William, nei boschi di Mont Juliet, nella contea di Kildare? William aveva dalla sua un’ottima condizione, una bella voglia di avanzare, una evidente felicità dell’esistere.

A cavallo di un cammello
Sulla sabbia di Aquaba in groppa al cammello
Sulla sabbia di Aquaba

Tutte caratteristiche assai più difficili da trovare in un altro quadrupede, che in un altro emisfero, ha accompagnato l’andare dell’uomo e per un breve tratto anche il mio: i cammelli. Questi animali hanno caratteri malmostosi e vivono un eterno conflitto con i cammellieri, da cui vengono spesso e volentieri molto maltrattati.
Già l’idea di agganciare un filo alla loro narice per condurli, è tutto un programma. Ma ad Aquaba, il cammello che ho montato, sembrava ben pasciuto e dotato di un atteggiamento possibilista: superato l’inevitabile contraccolpo di quando ci si alza da terra, il mondo visto in groppa ad un cammello ha una sua ragion d’essere. Le dune non sono più muri, ma semplici onde, la sabbia non ti entra negli occhi, la brezza stempera il caldo…

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Per non guastare l’incanto, per non dargli fastidio, non tirai la cordicella attaccata alla narice. Ma se con il piccolo cavallo delle Piramidi il dialogo era stato possibile, grazie al mio assetto e alla mia familiarità con quel genere di cavalcatura, con il cammello fu tutta un’altra storia. E se  il suo proprietario non avesse preso in mano la situazione, il cammello si sarebbe accovacciato su un banchetto che vendeva banane. Questo non mi ha ridotto alla ragione: ho montato cammelli in India, in Egitto, in Giordania…

In groppa a un mondo di ricordi a quattro zampe
Sulla sabbia di Aquaba in groppa al cammello
Gioco di sguardi

Credo, andando in giro per il mondo, di aver montato tutto il possibile: so che certi coloni inglesi del primo Novecento in Kenya hanno montato delle zebre, che sono equidi come il cavallo, il somaro e il mulo, ma hanno un caratterino per nulla collaborativo. Alcuni indigeni hanno montato gli struzzi… ma altro non mi viene in mente.

Per quanto possa sembrare puerile (ma il “puer” che è in noi ha ben diritto di dire la sua) mai mi sono sentita vicina al cuore di un paese e della sua cultura, come quand’ero in groppa a un animale: Dollar, il cavallo montato nello Yucatan, i cavalli della “pusta” ungherese, un elefante thailandese… non posso, non riesco e soprattutto non voglio dimenticarli.
Una gamba di qua, l’altra di là… allora sì che io appartengo al mondo e il mondo appartiene a me.

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