Sabato 5 Ottobre 2024 - Anno XXII

Soweto, il rione-città dell’apartheid

Simbolo del Sudafrica della separazione razziale, Soweto è una città dentro la città (Johannesburg). Libertà, democrazia e rinnovamento sono diventate le parole chiave della generazione che ha vissuto l’uprising del 1976, così come di quelle successive

Johannesburg
Johannesburg

Uno scalo di qualche ora a Johannesburg,  può rivelarsi un’esperienza di vita memorabile. Tutto comincia con un dubbio: rimanere a girovagare per gli innumerevoli duty free dell’aeroporto,  o uscire e provare a vedere cosa si nasconde dietro gli alti grattacieli su cui temevo di atterrare pochi minuti prima?
La risposta arriva quando, appena fuori dal ritiro bagagli, l’insegna cubitale del centro informazioni attira la mia attenzione. Avvicinandomi mi rendo conto che non è difficile rimediare un tassista-guida disposto ad accompagnarmi per i luoghi di interesse della città. A questo punto, tutto ciò che mi serve sono solo una macchina fotografica e qualche rand (la valuta locale) in tasca. La mia curiosità di vedere cosa c’è dietro i grattacieli fa sorridere il tassista che capisce subito cosa intendo e dove voglio andare e la destinazione diventa subito chiara per entrambi: South Western Township, ovvero Soweto, il luogo in cui trentadue anni fa iniziò (parafrasando Nelson Mandela) la lunga marcia verso la libertà.

Casette marroni

L'ingresso della casa museo di mattoni rossi di Nelson Mandela
L’ingresso della casa museo di mattoni rossi di Nelson Mandela

Il taxi percorre la tangenziale della città verso sud per almeno quaranta minuti, ma il viaggio è piacevole perché il mio cicerone inizia subito a raccontarmi della bellezza e della cattiveria della sua terra, senza lasciarmi nemmeno il tempo di fare domande. Ad un certo punto, sia a destra  che a sinistra della strada, appaiono una serie di casette di pietra marrone, tutte uguali nelle dimensioni e nella struttura: siamo entrati nel cuore di Soweto e le case che trovo tanto buffe sono quelle costruite dal governo sudafricano alla fine degli anni quaranta per riallocare i neri, strappandoli dalle altre aree della città. Le dimensioni (estremamente piccole) delle case, non dipendevano dal numero degli abitanti: che si fosse in due o in dieci, come nel caso della famiglia del mio tassista-guida, quello era l’unico tetto sotto cui dormire. Prendere o lasciare, cioè emigrare. Il numero di questi alloggi è davvero impressionante, ancora di più se si pensa a quante persone sono state costrette a viverci. Soweto conta oggi ben tre milioni e mezzo di abitanti (cifra che non include la gente che vive negli insediamenti informali) costituendo il ghetto nero più popoloso del sud-est africano. Eppure l’apartheid è finita da un pezzo…

Dai giovani studenti la prima insurrezione

Un murales del quartiere di Soweto. Foto esposta al museo di H.P.
Un murales del quartiere di Soweto. Foto esposta al museo di H.P.

Arriviamo quindi allo stadio di Orlando (che, insieme ad altri, ospiterà i mondiali di calcio del 2010) tristemente famoso per  la rivolta studentesca del 1976, ossia il punto di svolta nell’intera storia sudafricana. Fu qui infatti che il 16 giugno 1976 migliaia di studenti delle scuole superiori nere della città, si diedero appuntamento per manifestare in modo pacifico contro l’insegnamento della lingua afrikaans nelle scuole, imposta dal governo. La manifestazione fu però immediatamente bloccata dalla polizia che non esitò ad utilizzare le armi come strumento di dialogo e confronto.
Più di cento giovani sotto i diciotto anni rimasero uccisi e molti tra quelli sopravvissuti furono arrestati. Questo episodio non fece che alimentare il desiderio di liberazione insito negli animi dei giovani di Soweto e scosse nel profondo l’intera comunità nera sudafricana, tanto che, nei giorni successivi, altre proteste iniziarono spontaneamente in ogni angolo del paese, dando vita a quella che viene ricordata come l’“uprising”, l’insurrezione.
Hallen, la mia guida, mi racconta di aver preso parte in prima persona alla manifestazione del 16 giugno. Sopravvissuto allo scontro con la polizia, lasciò subito la città per evitare di essere arrestato, rifugiandosi nei pressi di Durban dove, suo malgrado, continuò a studiare in afrikaans.
La rivolta studentesca assunse lentamente connotati ideologici sempre più forti e il rifiuto della lingua dei colonizzatori (l’afrikaans deriva infatti dall’olandese) si trasformò a poco a poco nel netto rifiuto della politica di segregazione razziale e nella richiesta di uguaglianza tra bianchi e neri, parità di diritti e democrazia.

Il Museo di Hector, per non dimenticare

Un corteo di protesta a Soweto (Sudafrica) nel 1976. Foto © Peter Magubane.
Un corteo di protesta a Soweto (Sudafrica) nel 1976. Foto © Peter Magubane.

Le vicende dell’uprising, con l’eco di sgomento e solidarietà che sollevarono a livello internazionale, sono parte del museo situato poco lontano dallo stadio e dedicato a Hector Peterson, la vittima più giovane del 16 giugno, ucciso a soli dodici anni. Grazie all’ausilio di supporti multimediali, il museo offre un emozionante viaggio virtuale in una delle pagine più dolorose della storia del secondo dopoguerra, dall’istituzione alla fine dell’apartheid, formalmente avvenuta nel 1990 con la liberazione di Nelson Mandela dal carcere di Robben Island.
La quantità di informazioni distribuite sui due piani dell’edificio è degna di nota,  ma purtroppo non ho abbastanza tempo per soffermarmi su tutte come vorrei. Scelgo allora di seguire il percorso cronologico, più snello e rapido rispetto a quello tematico, lasciando gli approfondimenti alla fine della visita. Di particolare interesse trovo i documentari sulle condizioni di vita in Sudafrica dopo l’entrata in vigore delle leggi del 1948, quelle cioè che riducevano al limite le libertà fondamentali e i diritti civili dei neri, legittimando così l’apartheid. Il documentario suscita in me uno spontaneo e amaro sorriso e penso che la storia non fa altro che ripetersi, tale e quale a sé stessa. La seconda guerra mondiale era appena finita e ancora una volta, in un altro angolo del mondo, nuovi provvedimenti razziali autorizzavano discriminazione e disuguaglianza in nome della (presunta) superiorità biologica.

Difficile integrazione

Il monumento alla memoria di H.P.
Il monumento alla memoria di H.P.

Uscendo dal museo e prima di puntare al mercatino che circonda l’edificio, per comprare una bambolina zulu, simbolo della tribù più numerosa del Sudafrica da cui prende il nome, la mia attenzione si ferma sul luogo esatto in cui Hector Peterson fu ucciso e poi sepolto. La monumentale lapide di marmo amaranto, sovrastata da una foto a dimensione umana del giovane agonizzante, stride in modo assordante con la vivacità e i colori delle bancarelle intorno. Del resto, dappertutto qui in Sudafrica si respira un’aria di fortissimi contrasti etnici, culturali, economici, sociali. La fine della separazione razziale non ha portato con se l’agognata integrazione, non ancora per lo meno, e le varie etnie, i bianchi di origine inglese e olandese, i neri autoctoni e immigrati da altri paesi africani, a cui si aggiungono indiani, pakistani e cinesi, vivono l’una affianco l’altra, senza davvero integrarsi e beneficiare l’una della ricchezza dell’altra.
Credo che abbia ragione Hallen, che qui è nato e vive da quarantacinque anni: questo paese e la sua gente hanno sofferto troppo per cancellare con un colpo di spugna la parola “apartheid” e dimenticare le ingiustizie subite. La ragione per cui molti neri non hanno abbandonato Soweto dopo il 1990 è proprio questa: rimanere per loro vuol dire ricordare e preservare l’identità ancora precaria costruita col sangue. Serviranno forse un paio di generazioni per guarire le ferite e realizzare finalmente il sogno del melting pot africano.

Nel nome di Mandela

Nelson Mandela alle urne
Nelson Mandela alle urne

Sulla via del ritorno, Hallen mi guida alla casa-museo di Nelson Mandela, purtroppo chiusa per restauro fino alla fine di ottobre 2008. Cerco di sbirciare dalle finestre, ma tutto ciò che riesco a vedere è solo un quadro appeso alla parete dell’unica stanza della casa. E’ una foto in bianco e nero di Mandela alle urne durante le prime elezioni democratiche del 1994, quelle che lo resero il primo presidente nero della repubblica sudafricana. Tornando verso l’aeroporto, alla fine del mio giro, rivedo in lontananza i grattacieli. Visione che provoca adesso un’immediata sensazione di insopportabile stridore; alla mente si materializzano all’istante, come per riflesso, le strane casette marroni che ho visto poco prima a Soweto.

Sudafrica inquieto

Johannesburg
Johannesburg

Per visitare Soweto, cosi come l’intera città di Johannesburg, è consigliabile rivolgersi ad un’agenzia locale o ad un taxi-guida autorizzato. Avventurarsi da soli può essere estremamente rischioso. Johannesburg vanta infatti il primato poco invidiabile di città con il più alto tasso di microcriminalità dell’intera regione sudafricana. Scippi a danni di turisti e stupri sono all’ordine del giorno.
Inoltre, in seguito all’ondata di violenze xenofobiche esplose l’inverno scorso, la stabilità e la sicurezza della città sono state messe a dura prova. Nonostante la situazione sembra essersi normalizzata, se si vuole intraprendere un viaggio è bene verificare la situazione tramite l’ambasciata italiana a Pretoria e segnalare in modo dettagliato le zone che si vogliono visitare e i luoghi in cui si intende soggiornare.

Per informazioni sui tour organizzati di Johannesburg e dintorni:
www. lordstravel.co.za

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