Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Romagna, nel regno del “Lissio” e della “Piadina”

Romagna

Disinvolto resoconto sulla terra del Passatore, lardellato di epigrafi e scritte solo a prima vista eccessive. Una “regione” nella regione, ricca di storia e di personaggi unici

Cesena Fontana del Masini
Cesena Fontana del Masini

“Romagna solatìa, dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta; cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta“.
L’incipit, il decollo di questo scomposto non meno che disordinato raccontino sulla Romagna (o – come si diceva antàn – le Romagne, nella versione al plurale spettante a tutte le grandi, vaste e poliedriche terre del mondo) non poteva che toccare alla poesia di Giovanni Pascoli, beninteso romagnolo doc. E di poesia, di detti e massime, di frasi celebri e non, di battute e filastrocche risalenti e accreditabili a gente celebre e meno celebre, il tutto relativo a fatti e vicende della regione (che conta anche su una sorta di ‘dèpendance’ nota come Emilia) sarà lardellata questa narrazione (non vorrà pertanto infuriarsi il cortese lettore se gli capiterà di imbattersi in un eccesso di virgolettature o frasi in corsivo).

Geografia complicata

Romagna
Scopri la Romagna

A lui, al gentile lettore, giunga dunque il benvenuto portogli dal sorriso di una “bèla burdèla” (ragazza) che poi sarebbe la romagnola, romagnola bella, di Rimini, Lugo e Brisighella. Ma, a parte Gatteo a Mare, a tutti geograficamente nota non per il Rubicone che la bagna, ma perché immortalata da una composizione musicale casadeiana (se tu vieni a Gatteo a Mare, le ragazze tu vedrai ballare) dov’è mai ‘sta Romagna? Eccone pertanto le coordinate: trovasi tra la provincia di Ferrara (fiume Reno) a nord e le Marche a sud (ancorché i romagnoli duri e puri del “deep south” ravennate e lughese giurano che la vera Romagna finisce sul Rubicone, e pertanto, riferendosi ai riminesi, ricorrono allo spregevole epiteto di “marchigiani”); è inoltre situata tra l’Adriatico a est e la provincia di Bologna a ovest. Ma se si parla del confine occidentale romagnolo-emiliano (dalle parti di Imola) è forse meglio andare cauti, evitare certezze, per il semplice motivo che una vera e propria linea di demarcazione non esiste. Il mistero potrebbe anche essere risolto: basterebbe seguire il metodo suggerito da Bacchelli, peraltro sconsigliabile per l’eccessiva perdita di tempo e il rischio di perdere punti patente se obbligati a soffiare nel palloncino.

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Terra del Passator Cortese

Museo casa Pascoli
Museo casa Pascoli

Scrive infatti l’autore del “Mulino del Po” (diciamoci la verità: noiosissimo romanzo che più palloso non si può e guarda caso è ambientato in Emilia, mica in Romagna) che per scoprire in quale terra ti aggiri, hai solo da entrare in una casa colonica di frontiera e chiedere “e bè”. E datosi che in precedenza hai perfezionato studi in filologia emiliana e romagnola, imparando che nel primo caso “e bè” vuol semplicemente dire “bere” (da cui l’orrida possibilità che ti porgano acqua) mentre in Romagna significa “vino”, ecco che ritrovandoti ubriaco scopri di essere nel pascoliano “Paese del Passatore”. Con le citazioni del Pascoli si è comunque finito, visto che di romagnolo, di positivamente contadino, il triste poeta non è che avesse molto (vabbè, la mesta vicenda della “Cavallina Storna” non è che capiti tutti i giorni, ma c’è anche gente che a volte la sfiga se la chiama).

Libera Repubblica di Romagna…

Romagna Bertinoro osteria ca del be
Bertinoro osteria ca del be

Molto meglio, quanto a “romagnolità”, con i relativi caratterini, altri personaggi (oltre, beninteso, il faentino Pietro Nenni e il predappiese Cav. Benito Mussolini, colui che, secondo i suoi conterranei – e ne erano certissimi – “aveva sotto due marroni così”). Grandi “rumagnòl” furono ad esempio, a metà del secolo scorso, il calciomane conte Rognoni di Cesena, corifeo e ancorché scherzoso vate di una “Libera Repubblica di Romagna” e il senatore Aldo Spallicci, ottimo poeta e Padre Coscritto in quel di Bertinoro della celeberrima “Ca de Bè” (e siccome per “e bè” si intende il vino, ci si vada a degustare tante ottime versioni di Albana, mentre per le “tajadèl” è meglio spostarsi dalla “Benilde” – ristorantino dalla validità inversamente proporzionale alla modestia – sulla salita conducente alla piazza del Comune). Superfluo aggiungere che Spallicci apparteneva al Partito Repubblicano, un curiosissimo fenomeno tutto romagnolo, perché, a parte qualche isolato aficionado in Sicilia e nella Toscana nord-occidentale, tutta la fazione dell’Edera (oggidì virtualmente scomparsa o quantomeno ridottasi agli epigoni di Giorgio, figlio del mitico Ugo La Malfa) era radicata in Romagna.

… all’insegna dell’appassita Edera

Romagna A Lugo un'iscrizione ricorda il primo centenario della nascita di Garibaldi
A Lugo un’iscrizione ricorda il primo centenario della nascita di Garibaldi

Perché fino a qualche decennio fa anche a Ravenna, Forlì e Cesena garrivano al vento tante bandiere rosse, ma mentre a Bologna, Modena e Reggio contenevano la staliniana Falce e Martello, in Romagna racchiudevano la foglia simbolo del pensiero di Mazzini e Garibaldi (se mai il buon Peppino ne avesse mai posseduto uno). E parimenti nelle località romagnole, non v’era Casa del Popolo senza la precisazione “Repubblicano”. Oggi quel poco che resta del romagnolo spirito rivoluzionario e barricadiero lo si può trovare (alle pareti immagini di Marz Guevara & C.) all’antico (1847) Circolo dei Mulnèr (mugnai) di Ravenna; per i soci e altri avventori è disponibile un cucinotto scaldavivande, i pigri portano invece il solo cartoccio rifocillante, divertente).

Clero e Savoia. Pruriti di pelle

Cesena
Cesena

Ad ogni buon conto, per scoprire che in Romagna – oltre al clero – i Savoia non ispiravano grandi entusiasmi, basta consultare i risultati del Referendum del 2 giugno 1946, ben scolpiti nel marmo sullo scalone d’ingresso al Municipio di Ravenna (Iscritti 59.024, Votanti 54.769, Repubblica 48.825, Monarchia 4.720). Due a zero e palla al centro. Ma come detto è il clero, il prete (non tanto il guareschiano don Camillo, quanto tutto ciò che sapeva, o sa, di papalino) che – almeno un tempo, leggasi fino a qualche decennio fa – non stava poi così simpatico ai romagnoli (antàn girava una barzelletta in cui due cacciatori notturni, vedendo nel buio una sagoma nera, esclamavano contestualmente “spara spara, che potrebbe essere un ‘prit’ ”). D’altro canto cosa deve (o doveva) pensare un povero cristo che un bel mattino si ritrovava vessato da un non meglio specificato Duca di Romagna (laddove si fa riferimento a quel bel tipetto del Valentino, al secolo Cesare Borgia) solo perché, a “metterlo su” era stato il babbo, meglio noto come papa Alessandro VI? E fu così che (a parte Faenza che il Lamone bagna la gente più ignorante di Romagna, nonché caposaldo della “nobiltà nera”) chi gira nelle città romagnole si imbatte in targhe, lapidi e monumenti assai poco riverenti nei confronti di Santa Madre Chiesa.

Icasticità di Olindo Guerrini

Romagna Lugo, la Rocca
Lugo, la Rocca

A Lugo, sulla Rocca, oggi Municipio, una lapide recita: Più che la pietra duri il ricordo di Andrea Relencini strangolato e bruciato qui presso nel 1581 per sentenza della S. R. Inquisizione ed ammonisca che la Chiesa non tollera ombra di libertà. Breve inciso: autore del sullodato anatema fu il mangiapreti non meno che blasfemo Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, che al suo paese natale, Sant’Alberto (Ravenna) dedicò il seguente sonetto: Bisce zanzare rane, gente pallida e scortese, tutte le donne son puttane, questo è il mio paese (ma nonostante cotanto verismo i suoi compaesani hanno onorato il poeta istituendo nella sua casa natale un interessante museo che, capitando nel ravennate, il cortese lettore vorrà convenientemente visitare). E di Guerrini-Stecchetti va anche ricordato il libro – a dimostrazione della sparagnina frugalità contadina romagnola – “L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa”, curioso non meno che utilissimo ricettario, in tempi di crisi economiche e non.

Epitaffi “pro Ecclesia” …

La lapide commemorativa del cesenate Leonida Montanari
La lapide commemorativa del cesenate Leonida Montanari

Ma quanto a epitaffi e scritte anticlericali in Romagna, è Cesena a potersi definire la capitale. La città propone, da una semplice insegna stradale (Via Fanino Fanini, evangelico faentino, per la sua fede impiccato ed arso, Ferrara, 22-8-1550) alla lapide posta nel portico del Comune a ricordo (ne raccontò le gesta Gianni Magni nel film “Nell’anno del Signore”) di Leonida Montanari, che Ardito d’aspetto d’ingegno, splendido d’anima spassionata e gagliarda, ardente d’amor patrio, cospirò costante tra le file dei Carbonari in Roma dove il 23 Novembre 1825 lasciò sorridente la vita giovane sul cruento patibolo eretto dalla tirannide papale.

Ma su tutte, se si parla di scarsa simpatia per i “prit”, domina una lastra (datata 1903 e posta al primo piano della casa natale della vittima, in via Garibaldi 59) che così recita: La santità di Pio VII felicemente regnante e la congregazione criminale dei reverendissimi monsignori, invocato il divino aiuto giudicavano e condannavano alla morte civile Vincenzo Fattiboni, reo di avere consacrato la forte giovinezza, precursore e apostolo, alla libertà, all’eroica sposa e alle sue innocenti creature che dal dio cattolico e dal suo vicario Leone XII la pietà invocavano, rispondeva la mannaia in Roma, la forca in Ravenna, ma gli dei e i loro pontefici invecchiano e muoiono, la patria la libertà e le virtù restano

… e per ogni occasione

Piazza della Libertà a Faenza
Piazza della Libertà a Faenza

Sempre in tema di lapidi e monumenti, ma senza invettive anticlericali (sembra però giusto ricordare che la Romagna si sorbì più di tre secoli di Stato Pontificio) si sorrida riscontrando il contadinesco “humour” romagnolo nelle scritte naif leggibili su due tombe del cimitero di Ravenna: una rammenta che chi giace Trascorse la vita riposando e qui continua; l’altra ricorda che il defunto Visse onesto benché fattore. Tipo strano, il romagnolo. Se si parla di uomini predomina il “macho”: duro e puro; raramente comunica i suoi sentimenti, li tiene per sé e si guarda bene dal mostrare criminose debolezze (forse un po’ meno oggidì, ma un tempo, sotto i portici del bel Pavaglione di Lugo, se un marito veniva cuccato a reggere la borsetta della mogliera o a spingere la carrozzella col “burdèl” (bambino) correva il rischio di non poter più frequentare il bar, “ça va sans dire” rigorosamente precluso alle “femmine”). Va però anche detto che una sorta di autodifesa dalla donna romagnola, l’omarino se la deve pure inventare. Perché la “azdora” (reggitrice, padrona della casa) il suo bel caratterino decisionista ce l’ha, eccome. Un esempio?

Caterina e Annita, “azdore” doc

Il cippo di Anita a Mandriole di Ravenna
Il cippo di Anita a Mandriole di Ravenna

Oltre a Rachele Mussolini, unico essere capace di mettere paura e comandare l’onnipotente dittatore e duce dell’Impero, Caterina Sforza, la mitica “Grande Signora di Romagna”, colei che, difendendo a Porta Schiavonia le mura di Forlì dall’assedio dei faentini, alzò la gonna davanti al nemico che minacciava di ucciderle il figlio e mostrò quella che (molto volgarmente) i bagnini riminesi oggidì chiamano “pataca”, non senza commentare che con quel marchingegno avrebbe comodamente potuto riprodurre tanti altri discendenti vendicatori; superfluo aggiungere che alla vista di cotanta “arma” della guerreggiante “azdora”, i faentini tolsero l’assedio. E “azdora” ad honorem dovrebbe essere proclamata Annita, la cui incredibile, affascinante vicenda fianco al Peppino Garibaldi, ebbe fine proprio in Romagna (alle Mandriole, pochi chilometri a nord di Ravenna, prima del Passo di Primaro; interessanti la casa – che sta divenendo museo – in cui morì e il poco distante cippo).

Il destino nei nomi…

Faenza e le sue architetture fasciste
Faenza e le sue architetture fasciste

Tipi strani, i romagnoli, ad ogni buon conto franchi e schietti (dicesi che se stai affogando e chiedi aiuto a un romagnolo costui non ti lascerà sguazzare nell’acqua: o ti tira su o ti spinge nei gorghi). E anche tanto diversi, quando non stravaganti. Vedi il caso dei nomi appioppati alla prole. Mussolini fu chiamato Benito in onore di Benito Juarez, il presidente del Messico che a metà dell’Ottocento fece polpette della Chiesa locale, istituendo la laicità dello Stato, il matrimonio civile e il divorzio. Un altro babbo (come il grande riminese Fellini insegnò, in Romagna il genitore non si chiama padre né papà, è solo il babbo) si ritrovò una suite di figlie e (tracciando il solco ai tanti romagnoli che oggidì rispondono al nome di Lenin e Stalin) pensò bene di chiamare le prime tre rispettivamente Folla, Unita, Vittoria; se non che il destino beffardo, non meno che reazionario, impedì la venuta al mondo della quarta figlia, che, beninteso, non avrebbe potuto che chiamarsi Certa.

… e nei personaggi

Bagnacavallo, Piazza Nuova
Bagnacavallo, Piazza Nuova

E romagnoli curiosi, come un gregario della banda del Passator Cortese (che bella la sua rapina di massa al teatro di “Frampòl”, in italiano Forlimpopoli: il pubblico si impaurì a tal punto che la sorella del grande Pellegrino Artusi, il Gualtiero Marchesi del tempo, perdette la favella). Il nostro fuorilegge subalterno, di Boncellino, poco distante da Bagnacavallo, patria del grande Leo Longanesi (scrittore, giornalista, grafico) era talmente curioso da essere soprannominato “Dumandòn” per le eccessive domande che impietosamente rivolgeva ai colleghi briganti, anche a rischio di essere scoperti durante i rastrellamenti dei carabinieri pontifici. Oppure incazzosi, senza peli sulla lingua e stravaganti, i romagnoli. E’ il caso di “Chilone”. Antifascista, espatria in Francia, poi torna a Lugo e apre una “Ustarèia”, in italiano trattoria; e la sua – ahinoi oggi scomparsa per far posto a una boutique – fu davvero unica e mitica: fortunato chi potrà leggerne la magnifica descrizione reperendo l’ormai raro perché datato libro, “Bocca Cosa Vuoi” di Renzo Renzi e Dario Zanasi, prefazione di Cesare Zavattini, Cappelli editore.

Il “mitico” Chilone

Lugo centro monumento a F. Baracca
Lugo centro monumento a F. Baracca

Il giorno dell’inaugurazione del monumento a Baracca, piomba nella ridente località romagnola una nobile delegazione della Casa Reale che, al termine della cerimonia, si reca da “Chilone” a pranzare. Ottimo pasto (si mangiava alla grande, di aperitivo c’era solo un buon bicchiere di Sangiovese – e così dovrebbe sempre essere – e il caffè era preparato con la tradizionale caffettiera) dopodiché una delle principesse chiede dov’è il cesso (che non poteva che essere alla turca, ndr) vi si infila e ne fuoriesce poco dopo lamentandone la precarietà. Al che il nostro, caro oste “mugugnone” guarda bene in faccia la Savoia e con romagnola schiettezza le chiede: “Mo, sora prinzèsa, ch’lè vegnù chì par magnèr o par caghèr?”. E visto che tutte le storie hanno sempre un seguito, la Savoia se ne tornò a Roma a far pipì al Quirinale, mentre “Chilone”, pervenuto alle ottantacinque primavere, decise che la moglie cominciava a stancarlo eppertanto una bella notte la strozzò (messo in galera ci stette per un po’ dopodiché si stancò e, salito sul tetto del reclusorio, diede un calcio alla noia mediante un liberatorio salto nel vuoto).

Max David, invidiato da Hemingway

L'elefante scolpito sul portale dell'Aula del Nuti
L’elefante scolpito sul portale dell’Aula del Nuti

Meno tribolata (ma anche sufficientemente ‘peligrosa’, quando si ha a che fare con i ‘toros bravos’ non si sa mai) fu l’esistenza di un altro importante romagnolo, eccellente inviato del Corriere della Sera, Max David di Zìrvia (in italiano Cervia; a proposito, chi passa da quelle parti e desidera mangiare un accettabile pesce dal buon rapporto qualità-prezzo faccia un salto alla variopinta e animata Cooperativa dei Pescatori, beninteso dopo aver visitato le storiche, restaurate Saline, un tempo veneziane). Max fu appunto un grande “aficionado a los toros” e durante un lungo soggiorno in Spagna (raccontò la guerra Civile e alcuni anni della successiva dittatura franchista) frequentò e conobbe così a fondo il “mundillo taurino” da scrivere un bellissimo libro sulla tauromachia (“Volapiè”, Bietti editore) che spinse il mitico Hemingway a confessare “Caro Max, vorrei saperne di tori quanto ne sai tu”. E proseguendo con la cultura romagnola, si torni a Cesena e tralasciando le già lette epigrafi anticlericali si proceda verso la monastica Biblioteca Malatestiana. Davvero un gioiello (dal 2005 inserito dall’Unesco tra le “Memorie del Mondo”) l’elegante edificio fu convento di frati francescani (forse per questo la cucina romagnola vanta gli “strozzapreti”, mentre non ha infierito sui monaci). Intrigante curiosità da non perdere, sul portale della splendida Aula del Nuti è scolpito un pachiderma (era l’emblema araldico dei Malatesta) sulla cui groppa appare la scritta Elephas Indus Culices Non Timet (L’elefante – nel senso di sapienza – indiano, non teme le zanzare).

Trionfo finale, con l’Artusi e l’inno di Casadei

Forlimpopoli monumento Artusi
Forlimpopoli monumento Artusi

Letto l’Artusi, e imparato “cosa sono” tante parole che al momento possono sembrargli sconosciute (i Passatelli – beninteso preparati con il tradizionale ‘ferro’ -, i Cappelletti – di magro, sembra ovvio -, i già citati Strozzapreti, la Piè alias Piada o Piadina, la Ciambella o Brazadèla, il Savor, la Saba o Sapa, l’Albana, la Cagnina, il Pagadebit – l’ultimo vino, c’era quindi tempo per venderlo e pagare i debiti contratti) il gentile lettore capirà vieppiù cos’è la Romagna.Se tanto girovagare per la Romagna/e avesse mai messo appetito, ecco una accorta ricetta: si prendano le tante pubblicazioni sulla “nouvelle cuisine” e si butti il tutto nella spazzatura, dopodiché si vada in libreria ad acquistare “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del grande (e già citato, ma per le brigantesche vicende create da Stefano Pelloni, il Passator Cortese, in quel di Forlimpopoli) Pellegrino Artusi. Dotato di questa vera e propria Bibbia Gastronomica (concepita e nata ovviamente in Romagna) chi fa da mangiare non solo non sbaglierà mai, ma godrà pure sapori antichi, genuini, ancorché stupidamente definiti caserecci e sorpassati; in poche parole, tutto il contrario di quelle “pugnette ristorantesche” ammannite oggidì solo perché “fa chic”, nel nome di una consumistica moda che purtroppo cucca pure tanti gonzi.

RomagnaIn chiusura, nel ricordo di Secondo Casadei, e “vai col lìssio!”: Romagna mia, Romagna in fiore, tu sei la stella, tu sei l’amore; quando ti penso vorrei tornare, dalla mia bella, al casolare… n.b.: per la precisione l’inno nazionale romagnolo, nacque col nome “Casetta mia”; solo in seguito Casadei si accorse che l’aveva composto per le “Romagne” tutte.

Info: www.stradadellaromagna.it

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