Monaci vignaioli e birrai
Il vino era evidentemente conosciuto e apprezzato molto prima che l’ondata monastica invadesse l’Europa. Ma è la Chiesa che, dopo le grandi invasioni barbariche e l’incredibile crollo di tutta una civiltà che le seguì, ha riportato in auge la vite, l’ha diffusa ovunque il clima permettesse di piantarla e anche oltre questi confini, facendo di questa coltura difficile l’arte raffinata che oggi conosciamo. Il cristianesimo ha bisogno del vino per celebrare la Messa. Ma chi dice vino nel Medio Evo dice gravi problemi di trasporto e costi elevati. Per non doverli affrontare – e risolvere – i vescovi fanno piantare vigne dovunque attorno alle sedi vescovili. I monaci molto spesso assai lontani dai centri urbani, votati all’autarchia e, per molto tempo, assai poveri, hanno più ragioni ancora per farlo. Il loro compito «nella selezione dei ceppi e nel perfezionamento della vinificazione – scrive molto giustamente J. Claudian – resterà dominante fino al XVIII secolo». In effetti, essi sono, in senso vero e proprio, i «padri della vigna» (“patres vinearum”). La coltura della vigna è un fatto di importanza tale che il “praepositus” primus che viene subito dopo l’abate, ne ha l’incarico.
Bonum Vinum
Per l’Italia la lista dei vini prodotti è altrettanto lunga che per la Francia. Ai cavalieri di Malta si devono il bardolino, il soave, il valpolicella e il vino dei colli del Trasimeno; ai benedettini il cirò, il freisa, il ragnano, il greco di Gerace e il greco di Tufo, il monsonico e il santa Maddalena; ai benedettini e ai monaci scalzi il vino dei colli Euganei; sempre ai monaci scalzi e ai gesuiti (oltre che ai monaci di Grottaferrata) il frascati; ai gesuiti si deve il lacrima-christi; ai certosini e ai cavalieri di Malta il capri; ai cistercensi il gattinara e lo spanna; ai templari infine il locorotondo. Cito i vini famosi che gorgogliano ancor oggi nei nostri ricordi e nella nostra bocca. Ma ogni comunità di monaci che iniziava una fondazione non aveva preoccupazione più pressante, dopo essersi assicurata la sopravvivenza, che quella di piantare una vigna! Prestigio, attaccamento ai frutti del lavoro di tutti, tradizione, bisogni religiosi, sorgente di risorse e chi sa, golosità, sono tutte ragioni per le quali i monaci non abbandonano mai senza dispiacere i vigneti, opera delle loro mani e del loro spirito di iniziativa.
Detti popolari sul modo di bere il vino e la birra
L’intemperanza dei religiosi fu, in ogni epoca, tema di insinuazioni, d’altra parte più amichevoli che cattive. Un detto ben conosciuto diceva: «bere alla cappuccina, è bere poveramente; bere alla celestina, è bere largamente; bere alla giacobina, è bottiglia dopo bottiglia; ma bere in cordoncina (con allusione alla cintura di corda dei francescani conventuali) è vuotare la cantina». Se le antiche regole monastiche proibivano quasi sempre il vino in modo assoluto, altri legislatori sono più indulgenti e ne permettono il consumo in alcune feste. Ma è con San Benedetto, la cui regola si impone all’intero Occidente, che il vino viene alla fine ammesso come una delle basi dell’alimentazione quotidiana.
Il Padre dell’Europa non ha preso questa decisione alla leggera: egli sarebbe stato piuttosto tentato di proibirne l’uso, sulla scia dei suoi grandi predecessori, ma fedele in questo come sempre, al suo senso della misura e della “discretio”, si piega davanti alla debolezza (“infirmitas”, dice nel capitolo che tratta dell’alimentazione, “imbecillitas” quando si tratta di vino) degli uomini aggiungendo che, certo, il vino non conviene ai monaci, ma che è impossibile su questo punto far loro intendere ragione; e cede all’opinione pubblica. Permette inoltre di superare la razione prevista in tre casi: per “loco necessitas”, cioè a causa delle condizioni locali, quale un clima particolarmente secco, o per la scarsità di frutti e di legumi (è significativo che il patriarca d’Occidente non abbia consigliato di bere acqua); per il “labor”, raccolta delle messi, fienagione, per la vendemmia, per il lavoro nei laboratori, e per l’”ardor aestatis”, il caldo dell’estate. Ben inteso questo permesso si accompagna al consiglio di evitare l’ebbrezza e l’indigestione. Il vino diviene così, con il pane, uno degli impegni maggiori dei cellerai (“vinitarius”) incaricati di vegliare sull’incantinamento e sulla conservazione. Prima cura del visitatore è verificare se ci sono riserve; e il “satisfecit” è dato quando egli può scrivere nel suo rapporto su questa o su quella casa: «Habet vinum usque ad novos fructus (Ha vino fino alla prossima vendemmia)».
Il consumo di birra per ogni monaco
Nel IX secolo, prestando fede allo storico Castelneau, il consumo sarebbe stato di 1132 litri all’anno per monaco (e anche più, in seguito a calcoli miei)! Alla fine del XIV secolo, i monaci dell’abbazia benedettina di Saint-Pierre-de-Bèze ricevevano un litro di vino nei giorni di festa e mezzo litro circa normalmente. Nel 1389, essi ottengono che venga celebrata una Messa per i religiosi morti nel corso dell’anno. Quel giorno, «l’abate offrirà al monastero un pranzo simile a quello di una domenica, con la grande zimarra e con quattro pinte di vino», cioè un litro di vino per il pasto! Nel XIV secolo, bevevano da 2 a 4 litri di vino al giorno. Un autore del Medio Evo scherza su questo gusto dei religiosi per il vino. Egli scrive: «Mai, qualunque sete possa avere, infornerà latte sotto i suoi baffi». Inizialmente, i monaci ricevevano un recipiente, detto giustizia (“justitia”) o pinta, che conteneva la razione di due fratelli: anche in una comunità di santi – e tutti i monaci non lo erano – questo non sarebbe stato un buon sistema. Si passò dunque a servirlo in tazze (“tacea”) individuali: erano di legno a Cluny, cosa che farà fremere i degustatori di tutto il mondo. Altrove si trovano tracce di bicchieri. L’importanza delle razioni varia secondo la gerarchia. Se per il semplice monaco, il fanciullo o il converso cluniacense, era di una giustizia per pasto, essa è di due per il priore del chiostro. Il grande priore ne riceve a discrezione … alla piccola colazione del mattino. I monaci ricevevano alcuni giorni una razione supplementare chiamata «vino di carità» (l’equivalente della pietanza in tema di cibo) che, secondo Calmet, corrispondeva a un terzo della razione solita o alla metà all’occorrenza. Infine, le sere d’estate, dopo l’ora nona, il monastero andava in gruppo a bere un sorso di vino nel refettorio
Cervesia: la birra dei monaci trappisti
Per molto tempo la fabbricazione della birra fu appannaggio dei conventi. La prima relazione scritta relativa alla sua fabbricazione è opera di un priore di San Gallo, in Svizzera. La parola luppolo («homblon» in gallo-romano; i Galli non avevano scoperto l’uso che si poteva fare del luppolo nella fabbricazione della birra) appare per la prima volta in una carta dell’abbazia di Saint-Denis nel 768; “cervesia lupulina”, letteralmente: “cervoise houblonnél”. Sono i benedettini che hanno introdotto questa anima della birra in Lorena.
Anche solo per il Belgio, le birre d’Orval, di Rochefort, di Westmalle, di Scourmont – che sono cistercensi – e molte altre sono d’origine monastica. La birra inglese di Burton-on-Trent è famosa: fin dall’anno mille i benedettini vi avevano fondato un’abbazia. E il nome stesso di Monaco, come la birra detta “fransiskäner” sono là per ricordarci a chi la birra deve la sua origine.
La «cervoise» (dal latino “cervesia luppulina”, parola del resto di origine gallica) non è, propriamente parlando, la birra quale noi conosciamo: era un decotto non chiarificato e molto denso di cereali fermentati – avena, farro, (la parola “braces” «farro» ha dato vita alle parole «brais», «brassin», «brasserie»), lenticchie, e anche veccia.
In Illiria si chiamava “sabaja”, da cui viene il nome del celebre dessert zabaione. Il fatto che si sia potuto utilizzare il nome in questo senso rende bene l’idea di quale dovesse essere l’aspetto della «birra» prima che i monaci se ne siano occupati per farne una «cervoise violente» e, con aggiunta di luppolo, di migliore conservazione. I monaci fabbricavano dunque la birra o meglio, affidarono la fabbricazione a specialisti che facevano torrefare i cereali in forni speciali chiamati torra. Era un grosso lavoro, per rimpiazzare al meglio il vino (“ut vice sit vini”).
Si distingueva la «birra dei padri» che era forte (“potio fortis”) e destinata ai monaci (a esclusione dei conversi) e la «birra dei conventi», più debole, che era distribuita alle suore (le brigidine bevevano una «birra leggera» chiamata “cervisia debilis”). Per forza di cose la birra si espanse soprattutto nei Paesi del Nord, là dove la vigna non prosperava: era, scrive D. Knowles, la bevanda base dei monaci inglesi.
Il benedettino Sant’Arnold patrono dei birrai
Il patrono dei birrai è un fiammingo, nato a Pamele, nel Brabante, Sant’Arnoldo o Arnolfo, morto nel 1087, abate benedettino di Oudenburg, dopo essere stato vescovo di Soissons. Egli aveva osservato che i forti bevitori di birra erano più resistenti degli altri alle epidemie. Non c’era in questo nulla di straordinario: la birra è fatta con acqua bollita – cosa che elimina i microbi e, grazie all’orzo e al luppolo, è ricca di vitamine, di destrina e di sali minerali eccellenti per la salute. L’iconografia rappresenta il nostro santo che immerge il suo pastorale in una vasca. Questo fatto gli assicura, da secoli, le simpatie attive dei birrai. Ma, anche se il monaco Arnoldo aveva consigliato il consumo di birra nei periodi di epidemie, nella stessa Germania questa bevanda fu sempre considerata come un ripiego. Questa opinione era a tal punto comune che il grande riformatore della vita benedettina, San Benedetto d’Aniane, concede due emine (circa mezzo litro) di birra, cioè il doppio di quanto concedeva in fatto di vino. A Cluny se ne versava a volontà. I monaci dell’abbazia di Le Bec ne bevevano la sera del Venerdì santo, contrariamente agli usi monastici del tempo: una prova in più del loro elevato spirito di mortificazione.
Birra a volontà solo in caso di necessità
Gli usi di questa abbazia prevedevano quello che i monaci dovevano fare se avevano sete durante la notte (il cibo era conservato sotto sale nel Medio Evo). Essi precisano che potranno calmare la sete bevendo in refettorio acqua o birra (è quello che i monaci chiamavano “biberes”) ma mai vino. È significativo ancora che una raccolta di usi incredibilmente minuziosa come quella di Eynsham, non precisi quale quantità di birra è permessa, ma si accontenti di scrivere che bisogna berne non “ad voluptatem”, ma solamente “ad necessitatem”. All’abbazia benedettina di Treviri, i giorni di digiuno, si distribuisce una pagnotta di pane con del sale «cum aqua aut cervisia (con acqua o birra)». A scelta. Gli usi di Corbie prevedono la distribuzione (consolatio) di due bicchieri di birra, detta dei «fratelli» ai poveri, ai giardinieri. e … al celleraio. San Luigi, che non amava la birra, ne beveva in Quaresima per mortificazione. Si sforzava di migliorarla (!) mettendovi del miele e del cumino.
Léo Moulin
, nato a Bruxelles nel 1906 e qui deceduto nel 1996, è stato un sociologo e scrittore belga di lingua francese. Antico pensionato della Fondazione Jean Jacobs a Bologna (ha sempre avuto uno stretto legame di vita e di studi con l’amata Italia) diventa professore nelle università di Lovanio e Namur, nel Collegio d’Europa a Bruges e, successivamente, presidente dell’Istituto belga di Scienze Politiche. Al di là dei suoi eruditi lavori – e per quelli pubblicati in Italia sosteneva che “essere chiamato a parlare di questo Medio Evo così male e così poco conosciuto, nel ‘bel Paese là dove ‘l Si suona’ era per lui il più gradito dei doni” – non ha disdegnato mai di consacrarsi alle gioie della gastronomia ed è stato vice presidente della federazione internazionale della stampa gastronomica e del vino. È stato sposato con la poetessa e saggista Jeanine Moulin e padre del compositore di jazz Marc Moulin.
Alcune tra le più importanti opere di Léo Moulin:
Le monde vivant des religieux, Dominicains, Jésuites, Bénédictins…
, Calmann Lévy, 1964. (Il mondo «vivo» dei religiosi : Domenicani. Gesuiti, Benedettini …)
L’Europe à table: dis moi ce que tu manges, Sequoia, 1975. (L’Europa a tavola: dimmi come mangi)
* La Vie quotidienne des religieux au Mayen Âge (prix de l’Académie française), Hachette, 1978. (La vita quotidiana dei monaci nel Medio Evo (premio dell’Accademia francese)
La Belgique à table, Exco Books, Anvers, 1979. (Il Belgio a tavola)
Saint Benoît, père de l’occident, Zodiaque, 1980. (San Benedetto, padre dell’occidente)
La Gauche, La Droite et Le péché Originel, Méridiens, 1984. (La Sinistra, La Destra e il peccato Originale)
Les Liturgies de la table. Une histoire culturelle du manger et du boire, Albin Michel – Fond Mercator, 1988 (Le liturgie della tavola. Una storia culturale del mangiare e del bere)
L’Europe des monastères (Newman John-Henry, Oursel Raymond, Moulin Léo), Zodiaque, 1988 (L’Europa dei monasteri)
Les universités catholiques en Europe, études et prospectives, (Stanislaw Grygiel, Léo Moulin, Gérard Defois, et al.), Ed. Universitaires, 1990. (Le università cattoliche in Europa, studi e prospettive)
La vie des étudiants au Moyen Age, Albin Michel, 1991. (La vita degli studenti nel Medio Evo)
* l’articolo pubblicato è stato desunto da questo volume