Sabato 20 Aprile 2024 - Anno XXII

Una sera a Isfahan

Il viaggio come incontro con l’altro e rinnovata conoscenza di sé. Da Isfahan a Tunisi, dal Sahara, al monte Atlante, a Granada, lo scrittore Cees Nooteboom non si ferma al dato esteriore, ma si mette sulle tracce dell’Uomo. Seguiamolo in Iran, leggendo un estratto del suo ultimo libro, “Il suono del Suo nome”, Ponte alle Grazie editore

Il ponte di Allah Verdi Khan a Isfahan
Il ponte di Allah Verdi Khan a Isfahan

 

IL GIARDINIERE E LA MORTE

Un nobiluomo persiano:

Questa mattina, pallido per lo spavento,
Gridò il giardiniere: «Signore, un momento!
Potavo le rose, le tagliavo corte,
Mi sono girato, e ho visto la Morte.
Ho fatto un salto, ho alzato le braccia,
E ho scorto l’ombra della sua minaccia.
Il tuo cavallo, vado, oh signore,
Corro a Isfahan, m’incute timore!»
Di pomeriggio, se n’era già andato,
Al parco dei cedri, la Morte ho incontrato.
«Perché» le ho chiesto, poiché taceva,
«Hai minacciato il mio uomo, che ti faceva?»
Con un sorriso lei mi rispose: «Quali minacce,
Ero sorpresa che qui stamane togliesse erbacce,
L’uomo che stasera, senza attendere,
A Isfahan dovevo andarmi a prendere.»

 

P.N. Van Eyck

Una sera a Isfahan

Truman Capote non prende mai l’aereo di venerdì, e anch’io spesso ho paura. Il tempo passa, e la paura non diminuisce. Leggi una poesia, venti, venticinque anni prima, e da quel momento Isfahan coincide con il destino ineluttabile, con il luogo in cui la morte ti viene a prendere. Per anni ho desiderato andarci, convinto che da lì non sarei mai più tornato. E non ha questo effetto soltanto su di me. La mattina della mia partenza, mentre passeggio per l’aeroporto di Schiphol, incontro il campione di scacchi Donner. Lui va a Monaco, per un torneo internazionale. Gli racconto che sono diretto a Isfahan. Mi guarda con aria preoccupata: «Io ci starei attento!» Ma ormai è troppo tardi. Ho già comprato il mio destino, e un paio d’ore dopo sorvolo i Balcani a bordo di un aereo tedesco pieno di uomini d’affari, pieno fino all’ultimo posto. Io vado in cerca di una poesia, loro del paese del boom. È un buon assaggio. Teheran è diventata una città di cercatori d’oro, l’unica differenza è che hanno una valigetta ventiquattrore al posto della pala.

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Come in un film di Humphrey Bogart...
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Quando si arriva per la prima volta da qualche parte si affronta sempre una sorta di test psicologico. Prima prova: tutti gli alberghi sono pieni, che cosa fai? Niente, aspetti e ti lamenti. Seconda prova: uomini urlanti trasportano i tuoi bagagli fino alla porta, poi vogliono soldi. Sopra ci sono solo caratteri arabi. Quanto valgono? Poi arrivano altri uomini, uguali, che caricano i tuoi bagagli su un’automobile, ma ti fanno mettere in fila. Spintoni e proteste nella notte orientale, una lunga coda, una lunga attesa, ma con il biglietto che ti danno alla fine, hai già pagato il taxi. Quindi niente imbrogli. Bel sistema, ma bisogna saperlo. Le strade sono vuote, ampie, vedo ombre di edifici imponenti. L’albergo è stato costruito per un film di spionaggio nel 1942. Alla reception c’è Humphrey Bogart, ma per ora lascio i microfilm nascosti sotto il toupet. Tutto è avvolto da un bagliore di celluloide strappata, vecchie lastre di marmo contro le colonne, ficus sprofondati in pensieri morbosi, e indovina un po’: tappeti persiani!

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