Quando arrivavamo a Jesolo, c’erano altri due segnali che per me erano una specie di striscione dell’ultimo chilometro: un vecchio aereo sulla destra di via Roma Destra (eccolo, c’è ancora), poi, più avanti, all’angolo con via Aleardi, la concessionaria Ford con la vecchia Ford Capri sopra un alto piedistallo che nella mia mente è sempre stata arancio salmone e il cofano anteriore nero, come il modellino della Matchbox che avevo a casa.
Giravamo a sinistra ed eravamo arrivati. Anche adesso giro, ma stavolta mi fermo ai piedi della Ford Capri che invece è una fiammante Escort grigio metallizzato e che a fine anni sessanta inizio settanta era invece una Cortina dipinta di blu. Era un enorme giocattolo ai miei occhi di bambino. Avessi proseguito dritto, anziché girare come ha sempre fatto mio padre, sarei arrivato al famigerato viale padania (minuscolo, ché la padania non esiste). Ma c’è tempo. Devo finire l’itinerario della nostalgia, prima, con il campetto da calcio della chiesa sulla sinistra (quante Italia-Germania, sopra a quella terra battuta, e quanti gol, a gara per due anni con un certo Thomas, modestamente…), poi le finestre di Stefania, la mia prima morosa.
Sono stato quasi una notte intera sotto quelle finestre a pensare di farle una serenata. Niente più di un lungo pensiero, per fortuna. Non gliel’ho mai detto. Avrei dovuto? E poi l’appartamento del millenovecentosettanta e qualcosa, l’hotel di qualche anno dopo, quello con la piscina di dopo ancora, l’appartamento in riva al mare degli ultimi anni: i comfort che aumentavano paralleli allo stipendio di mio padre. E avevamo eletto quella zona a nostro luogo prediletto. Al centro fra Piazza Mazzini e Piazza Aurora. Immetto dunque subito la mia vespa nel percorso della memoria in un posto, Jesolo, che non ha alcuna memoria, nessuna storia. Non ha un centro, tantomeno storico. La memoria in questo caso non è una memoria oggettiva, una memoria del paese. No. Solo milioni di memorie soggettive, da portare con sé nella vita: incontri, amicizie, amori. Un posto, Jesolo, che riesce a produrre un contrasto semplice ma impensabile: località brutta, oscena, ricordi bellissimi, indimenticabili.
Prima di partire ho cercato di individuare un centro nell’area costituita da tutti i luoghi da noi abitati: l’albergo che ha il nome della mia città. Curiosa coincidenza. Non siamo mai stati lì, ci vado io, adesso, quindici anni dopo l’ultima volta. E non credo sia cambiato. Fuori sì, tutto più bianco, pulito. Dentro no, la stanza è senza aria condizionata, il telefono quello a disco, grigio, e niente frigobar. Nella hall trionfano il rosa e il verde pistacchio.
È come star dentro a un enorme gelato. Pazienza. Comunque è pieno, comunque costa 150.000 a notte, comunque tutto con colazione e ombrelloni esclusi. Lego la vespa attorno a un albero e via in spiaggia. Il bar Mercedes, sulla destra, sede una notte di una mia infruttuosa dichiarazione a Stefania, c’è ancora (più bianco, più pulito). Dritto, sulla riva, appena entrati, troneggia la postazione sopraelevata dei bagnini, puro stile Baywatch ma senza l’ombra delle tettone di Pamela Anderson e senza, poi, le altrettanto enormi onde dell’Oceano. Servivano delle ingombranti postazioni così alte per il piattissimo Adriatico?
Il mio ombrellone è in prima fila. Non ho più l’età (la schiena, soprattutto) per il pontile di legno. Il primo ombrellone della mia vita: 20000 lire. Numero 17, già venduto a un’altra famiglia. Sarà anche tutto più bello, più pulito, organizzato. Ma forse no. Un paio d’ore dopo succede lo stesso a una coppia. In qualche modo si rimedia («Mettevi lì, tanto i due ragazzi di quell’ombrellone non arrivano mai prima delle quattro. Se arrivano…»), ma il dubbio della furbata resta.
Visto da qui, sul pontile pare accadano le stesse cose di tanti anni fa. Sono tutti giovani là sopra: incontri, amicizie, amori, forse. Si gioca ancora a calcio in riva al mare, in barba ai divieti: due zoccoli piantati a far da pali e via. Cambiano solo le capigliature, alcune rasate, molte decolorate, gialle come il pizzetto di Pantani agli Champs Elysée. Diverse anche le morose, cellulari all’orecchio, piercing al naso, tatuaggi sulle spalle, sulla schiena, sul culo, sedute sui pedalò che sarebbero uguali ai miei di tanti anni fa, non fossero muniti di scivolo a poppa per lanciarsi in acqua come ad Aqualandia.
Alcuni hanno mantenuto i nomi di un tempo: Villa Endrizzi, condominio Quercia, pensione Iris che era quella di Gustavo, il nostro bagnino. L’unico uomo al mondo che, ogni volta che lo guardavo, mi faceva pensare a un albero. Raggrinzito come una corteccia. Guardo meglio e noto che i lettini sono legati l’un l’altro e poi tutti insieme all’ombrellone. Ma come? Non puoi spostarle? Non puoi avvicinarle, o portare la tua con scaltrezza sempre più a contatto con quella della tua vicina olandese da corteggiare? Che pena. Sembra diventata una spiaggia svizzera. Sì. Se la Svizzera avesse le spiagge, una sarebbe Jesolo.
La sera ogni ombrellone ha il suo preservativo blu infilato sopra. Una volta gli aiuto bagnini facevano a gara, al tramonto, a chi se ne caricava di più sulle spalle in un colpo solo. E se li aiutavi, ti guadagnavi un giro in pedalò. La diga ora ha una prolunga di almeno venti metri dove approdano i battelli che portano a Venezia. Negli anni miei c’era il veliero Stella Maris che attraccava lì anche senza prolunga. Scendeva il comandante Bruno col megafono e in tedesco e in italiano prometteva una gita in alto mare con omaggi di stelle e cavallucci marini (ce ne sono ancora?).
Era un’ossessione: fino a qualche anno fa sapevo a memoria tutta la cantilena, adesso solo qualche frase che so pronunciare ma chissà come si scrive: «Achtung bitte, Achtung bitte!… In wenige Minuten fahren wir ab…». Dopo due ore non ne posso più: come facevo a trascorrere 30 giorni interi sempre lì? Misteri di gioventù. O forse è colpa dei ricordi. È sera. Doccia e l’intenzione è di visitare i posti di “tendensa”, direbbe il mio amico Franzoso. Piazza Mazzini, anzitutto. (…)
(17/01/2014)