Venerdì 29 Marzo 2024 - Anno XXII

La carovana del sale, in viaggio con i tuareg

Tra l’autunno e l’inverno di ogni anno, i tuareg nel nord del Niger attraversano la regione del Ténéré verso le saline e le oasi di Bilma e di Fachi per andare a rifornirsi di sale e datteri che poi trasporteranno nei paesi del sud per scambiarli con miglio, il cereale alla base della loro alimentazione. Da tempo Elena Dak sognava di partecipare a quell’avventura. Il caso gliene fornì l’occasione e nel 2005 si unì a una carovana di trenta uomini con trecento dromedari. Ecco un assaggio del suo racconto nel libro “La carovana del sale”, Casa editrice Corbaccio

La carovana del sale, in viaggio con i tuareg

Nella luce senza sfumature del tramonto si stagliano le silhouette dei pescatori bambini, che lanciano le reti in aria per poi lasciarle cadere sulla superficie dell’acqua come enormi meduse. Cominciò così, davanti alle acque lente del fiume Niger, l’avventura africana. Ero partita quello stesso mattino da Venezia. Sulla città, ancora assonnata, si era distesa un’alba come negli affreschi del Tiepolo. Dal finestrino dell’aereo la geografia di ogni isola mi era apparsa con singolare nitidezza nella forma e nel colore, dalle barene marroni, alle tegole rosse, alle acque verdi. Poi, la neve sulle Alpi. Infine il Mediterraneo, e le sabbie del deserto macchiate di nuvole, come pelle di leopardo. Stavo sorseggiando un tè alla menta sulle rive del Niger pensando con animo tranquillo alla carovana che ero venuta a cercare. Donne dalle forme morbide in abiti dai colori sgargianti mi passavano davanti ciabattando sulla polvere, portando a spasso sederi vistosi. Dalle ampie scollature emergevano schiene morbide e scure. Il Niger è uno dei pochissimi paesi del Nord Africa in cui ancora sopravvivono schegge di nomadismo. I tuareg sono una delle etnie che abita la boscaglia e il deserto.

La carovana del sale, in viaggio con i tuareg

Una parte di essi, concentrati soprattutto nelle regioni del nord, continua a vivere secondo schemi e ritmi antichi, praticando spostamenti stagionali legati alla ricerca di pascoli e a necessità commerciali. Sono pastori, dediti all’allevamento di dromedari e capre, che vivono inseguendo piogge e prati. All’inizio dell’autunno le carovane, composte da diverse decine e talvolta centinaia di dromedari e alcune decine di uomini, si apprestano ad attraversare il grande deserto del Tenére, che divide la catena montuosa dell’Air, dove risiedono i tuareg seminomadi, dalle saline di Bilma e Fachi, dove possono rifornirsi di sale, o i palmeti di Chirfa, dove fanno scorta di datteri. Giunti alle oasi oltre il grande deserto i carovanieri si fanno mercanti, e alla fatica muta della traversata seguono le contrattazioni del commercio.
Dopo pochi giorni le carovane prendono la via del ritorno. Centinaia di chilometri vengono percorsi ogni anno dai pochi che ancora hanno la costanza di vivere duramente secondo gli antichi costumi. Quasi tutto il sale e i datteri vengono poi portati verso sud da un secondo flusso migratorio per essere venduti o scambiati con miglio, elemento base della loro alimentazione, abiti e vettovaglie. Per anni, dopo tanti viaggi nel deserto, avevo sognato di unirmi a una carovana del sale, di attraversare le sabbie al seguito dei nomadi. L’incontro con un giovane autista, figlio di un capo carovana, creò l’occasione per realizzare il sogno. L’avevo conosciuto nel gennaio del 2005 durante un viaggio di lavoro. Una notte intorno al fuoco si parlava di nomadi e carovane. Mentre davo voce al mio desiderio, Ihalen, uno degli autisti, mi interruppe: «Io sono figlio di un madugu, di un capo carovana».

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La carovana del sale, in viaggio con i tuareg

Come non cedere alla tentazione di cogliere a piene mani l’occasione che il destino mi stava offrendo? Ci accordammo: se l’intercessione presso il padre fosse andata a buon fine, egli avrebbe accettato di accompagnarmi nella lunga traversata l’autunno successivo.
Tornata in Italia cominciai ad allenarmi quotidianamente, dalle spiagge del Lido di Venezia ai sentieri delle Dolomiti, dedicando ore a nuoto, bicicletta e corsa, seguendo i consigli preziosissimi del mio allenatore Michele, e temendo i dati impietosi del cardiofrequenzimetro. Dopo nove mesi di allenamenti ero partita per il Niger e lui era lì ad aspettarmi. Avevo letto racconti di viaggio, avevo incrociato una volta una carovana, avevo tentato di prepararmi accuratamente ma, a parte la certezza che qualcuno mi avrebbe accompagnata, non avevo idea di cosa mi aspettasse, di cosa avrei dovuto o potuto fare; tuttavia, in me non sorgeva alcuna apprensione. Per sperare di andare lontano non devi sapere quasi nulla del viaggio che stai per affrontare. Io non sapevo, dunque avevo buone speranze. Ora era il fiume lento a catturare i miei pensieri. Osservavo i camerieri nel giardino del piccolo hotel (scelto sulla base delle limitate finanze) che scendevano dalle scale portando enormi lastre di ghiaccio che sembravano frammenti di pilastri di cristallo. La trasparenza e la sequenza di gocce tradivano la loro vera natura.
A Niamey passai tre giorni dedicandomi all’arte dell’ozio. Osservavo le mani della gente dell’Africa, tutte diverse dalle nostre nel modo di oscillare nel vento, nell’attività e nel riposo. Lessi il libro di Cechov Scarpe buone e un quaderno di appunti che il professore di antropologia mi aveva consigliato prima della partenza:

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– non risparmiare sugli stivali
– avere sempre un quadernetto
– essere pronti a rivedere le opinioni basate sulle letture e sulle aspettative
– non farsi vincere dalle difficoltà iniziali e dalla paura dell’imprevisto
– talvolta lasciar fare al caso può rivelarsi utile
– percepire rumori, suoni e voci di sottofondo
– toccare con le mani
– assaggiare cibo
– scrivere quando le impressioni sono vive
– le risposte più interessanti a volte possono essere quelle false o approssimative come pure la mancanza di risposte
– descrivere scene
– mettersi dentro la scena. Tener presente che chi fa la ricerca e osserva è a sua volta oggetto di osservazione
– fare in modo che chi legge possa immaginare un luogo che non conosce.

Attesi la pioggia che più volte si fece annunciare da cieli cupi e venti violenti ma che scese altrove. Su Niamey giunse solo l’odore della terra bagnata. Alla fine dei tre giorni Michelino, l’amico italiano che aspettavo di ritorno da un suo viaggio di lavoro, mi accompagnò fino ad Agadez. Mi parlò, ascoltammo la musica, talvolta rimanemmo in silenzio. Lungo tutti i 900 chilometri del viaggio verso nord-est trovammo terre allagate.

[…continua…]

Info su: www.elenadak.it

 

(28/03/2014)

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