Venezia è la città d’acqua per antonomasia.fatta di ponti e canali, barche e ormeggi,e un minuscolo esercito di gondoleche solcano le onde come falci di luna.Inverno veneziano
Per molti giorni l’inverno era passato sopra Venezia come un capriccio e io l’avevo assecondato nei suoi mutamenti improvvisi cambiando di volta in volta la direzione del mio andare. Dapprima c’era stata la pioggia, che aveva acceso il selciato dei campi e delle calli di tremule luci, lasciando in ombra ponti e palazzi, e la leziosità dei ricami gotici che rischiaravano quelle ore buie durante la visita ai sestieri di San Marco e di Castello.
Poi era arrivato un giorno sperduto vestito di azzurro e le isole della laguna si erano risvegliate sotto il sole; in lontananza, a creare un contrasto pieno di mistero, un’onda bianca di montagne lasciava immaginare il nord. Avevo preso il vaporetto per Burano e lì avevo trovato angoli di quiete impensati, cortili privati e biciclette, ombrelle stese ad asciugare e signore in pigiama che spazzavano sull’uscio, gatti bianchi e neri, e tutti i colori del carnevale dipinti sulle case a due piani riflesse nei marciapiedi allagati, con le barche parcheggiate di fuori come automobili in città . Il giorno seguente su Venezia era caduta la neve, a cancellare anche il ricordo di quell’improbabile sole, e i fiocchi bianchi mi avevano sorpreso dentro il Ghetto, nel sestiere di Cannaregio, accompagnando la memoria fino all’ultimo treno partito verso i campi di concentramento.
Dopo quei giorni impazziti l’inverno veneziano si era placato distribuendo orizzonti grigi e malinconici, mentre l’acqua alta aveva sciacquato via turisti, bancarelle, ambulanti e anche le feste di Natale. Cosi nella quieta monotonia di tutti i giorni, mi ero messa alla ricerca dell’antico squero di San Travaso, nel sestiere di Dorsoduro. La minuscola segheria di montagna era spuntata all’improvviso nel punto in cui le Fondamenta delle Zattere scavalcavano il Rio di San Trovaso: sapevo che era il cantiere più antico della città e dopo giorni di gotico veneziano la vista della sua costruzione di legno scuro mi aveva lasciato a bocca aperta.
Lo squero era più piccolo di come l’avevo immaginato ed era composto da due blocchi diversi, recintati da un muro sul lato della terraferma e collegati tra loro da una tettoia: quello di sinistra era un semplice capannone per il ricovero delle imbarcazioni, mentre quello di destra, dotato anch’esso di una struttura coperta che si affacciava direttamente sul canale, al primo piano diventava una baita degna del Cadore, con la sua balconata di legno da cui sporgevano vasi di gerani in letargo, intenti a smaltire l’inverno.
Tra le due costruzioni, a riempire l’angolo di terra che si trovava alla confluenza del Rio Ognissanti con quello di San Travaso, sostava un cortile che pareva abbandonato, leggermente inclinato verso l’acqua per favorire la rimessa delle barche. In molti angoli del piazzale regnava il disordine: mucchi di roba vecchia, sacchi di plastica, un piccolo barbecue che aveva conosciuto tempi migliori, e soprattutto legno, bancali, scale a pioli, tavole accatastate, assi impilate su cavalletti, vecchi scarti gettati per terra. Nella solitudine del cantiere, quasi invisibile a un’occhiata frettolosa, la sagoma dell’uomo di cui ancora non conoscevo il nome spuntava dalla porta aperta nel capannone di sinistra, intenta ad armeggiare con mazzuolo e scalpello.
Avevo proseguito verso il Canal Grande e, al primo ponte che superava il Rio di San Trovaso, ero tornata indietro verso lo squero, tralasciando la chiesa e l’omonimo campo per raggiungere il numero 1097 di Dorsoduro.
Avevo sostato per un bel po’ di minuti davanti all’ingresso socchiuso, fingendo di leggere la guida ogni volta che un passante attraversava il campo, e quando finalmente avevo suonato il campanello Roberto Pavan mi aveva accolto con un sorriso che spuntava dietro gli occhiali prima ancora che sulle labbra.
Non era il proprietario, ma un suo amico fidato che negli anni della pensione praticava l’arte dell’intaglio. Chiacchierando di padri e bisnonni, di due figli che avevano riportato in famiglia l’antico mestiere del gondoliere e di una casalinga analfabeta che gli aveva fatto da nonna insegnandogli il dialetto goldoniano, il signor Roberto mi aveva mostrato il cuore dello squero, lo scheletro di due gondole le cui costole di legno riposavano a nudo. E con la passione dell’hobbista, lui, che amava definirsi veneziano e non italiano, mi aveva spiegato i segreti degli squeraroli, gli artigiani che ancora oggi costruivano le gondole interamente a mano.