Venerdì 3 Maggio 2024 - Anno XXII

Venezia, l’isola delle correnti

Questa settimana presentiamo “Inverno veneziano” che parla di Venezia, della laguna e dello squero dove mani abili e capaci costruiscono e riparano le gondole. “L’isola delle correnti” di Manuela Curioni, edito da Polaris, è una raccolta di racconti dove il reportage di viaggio lascia il passo al diario per catturare l’impressione di un momento

Cantiere
Cantiere

Ci voleva una buona perizia da falegnami mista all’ arte dei carpentieri, perché quell’imbarcazione leggera, che ricordava una falce di luna, era composta da ben otto legni di versi: c’era l’abete, un legno leggero e tenero, adatto all’impregnazione, con cui veniva costruita la parte del fasciame che pescava nell’acqua; poi c’era il rovere, un legno duro e pregiato, usato per lo scheletro della piccola barca; poi veniva l’olmo, che per la sua durezza e resistenza era impiegato per i fianchi; subito dopo era la volta del ciliegio, un’essenza dolce ma che durava nel tempo, usato per collegare tra loro i fianchi della gondola; per la copertura della prua e della poppa veniva preferito il mogano, che dava tavole larghe e compatte; il larice invece, la cui essenza era particolarmente resistente alle intemperie e che in montagna era impiegato per costruire i tetti delle case, a Venezia serviva per la pedana di poppa, dove sostava il gondoliere durante la navigazione; poi c’era il tiglio, anch’esso tenero ma poco deformabile, usato per i triangoli all’estremità della prua e della poppa; la costruzione terminava con l’impiego del noce, da sempre una delle essenze migliori e di maggior pregio, duro ma elastico, che rifiniva la gondola chiudendo le fessure delle parti coperte. Poi i colori delle essenze dei legni, che andavano dal bianco al giallo paglierino, dal rosso bruno al rosato, venivano coperti da numerose mani di vernice che uniformava tutto e la gondola diventava una luna nera, lucida e silenziosa.

Gondole
Gondole

Nei giorni della sua nuova vita, senza rimpiangere un lavoro che l’aveva portato lontano da Venezia ma felice di combattere la solitudine con i suoi scalpelli, Roberto Pavan si affaccendava intorno a tavole di mogano che avrebbero dato vita ai pusioi, i braccioli della gondola che chi traghettava in piedi non guardava neppure, ma che offrivano un buon punto d’appoggio a coloro che preferivano sedersi per godersi il viaggio a filo d’acqua, e che lui riusciva a chiamare soltanto in quel modo, usando il termine dialettale.
Tra le sue mani il mogano intagliato diventava un intreccio di foglie e fiori, pronto a inseguirsi e rinnovarsi a ogni germoglio. A me aveva insegnato che era meglio affrontare un possibile rifiuto che correre il rischi o di perdersi una storia.

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