Sabato 14 Dicembre 2024 - Anno XXII

Leonardo, da Firenze a Milano

Il genio del Rinascimento, Leonardo da Vinci, arriva a Milano la prima volta nel 1482. Ha trent’anni e una lettera di presentazione per il signore della città, Ludovico il Moro. Vuole fare fortuna e a tanta voglia di mettersi in gioco. Il libro di Marina Migliavacca “Leonardo – il genio che inventò Milano”, edito da Garzanti, narra come il talento di Leonardo ha plasmato Milano. Mondointasca vi presenta il capitolo “Da Firenze a Milano”

Il Naviglio di Leonardo Da Vinci, Milano
Il Naviglio di Leonardo Da Vinci, Milano

Anche se si è bravi, anzi bravissimi, è importante sapersi vendere. E il forestiero di bell’aspetto che si avvicinava a Milano in una indefinita giornata del 1482 e l’aveva ben chiaro in mente. (…)

Così Leonardo si mette in viaggio verso nord a cercare miglior fortuna. Quanto agli altri frequentatori della cerchia del Verrocchio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio, i Della Robbia, concentrati sulle arti visuali, hanno già ricevuto commissioni importanti dal Magnifico e hanno già trovato in qualche modo la loro strada: per esempio, Sandro in quegli anni sta definendo la sua Primavera, e con gli altri della bottega è stato chiamato a Roma a lavorare alla Cappella Sistina.
Una osservazione legata ai nomi degli artisti che ricorreranno spesso nelle nostre pagine, colleghi, amici, conoscenti o anche rivali di Leonardo. Se ci parlano di Alessandro Filipepi, diciamo che non l’abbiamo mai sentito nominare, ma se ci dicono Sandro Botticelli la cosa cambia. I pittori sono passati alla storia ben raramente con il loro vero nome; di solito li conosciamo con un nome d’arte anche buffo, che ha a che vedere con una loro caratteristica fisica (il Pinturicchio), o caratteriale (Masaccio), con un grado di parentela (il Vecchio, il Giovane), con un diminutivo per distinguere da un omonimo (Filippino e Filippo), col mestiere di famiglia (il Ghirlandaio) o col loro luogo di provenienza (il Perugino) o ancora col primo maestro che li aveva formati (il Verrocchio). Leonardo, forse perché il suo cognome era già anche il suo luogo di provenienza, non ebbe mai nomignoli e fu chiamato sempre e solo Leonardo, o Lionardo, da Vinci, o al massimo Vincio.

Leonardo il genio che inventò Milano
Cover “Leonardo” di Marina Migliavacca, © Garzanti, 240 pag. € 16,90
Cover “Leonardo” di Marina Migliavacca, © Garzanti, 240 pag. € 16,90

A questo proposito non si può fare a meno di notare che nella sua lettera di presentazione a Ludovico il Moro, Leonardo si guarda bene dal citare i lunghi anni passati dal Verrocchio, che pure sarebbero un buon biglietto da visita quanto meno per l’ultimo punto che riguarda le abilità pittoriche e scultoree, come se volesse davvero girare pagina. Il suo immenso talento è ancora in potenza. Sarà nella città sforzesca cinta dai Navigli che il maggior genio del rinascimento italiano potrà sbocciare, libero di vagare in tutti i campi dello scibile. Non si tratterà di una visita, un mordi e fuggi, un breve soggiorno: quasi vent’anni nella vita di un uomo non comune, dai trenta ai cinquanta, nel massimo splendore creativo. Ma tutto questo, naturalmente, Leonardo ancora non lo sa.
La vita di un artista, e quindi anche la vita di Leonardo, è uno splendido precariato cronico. Gioie e dolori dell’essere free lance, nell’accezione più antica del termine. Il modo di dire, vale la pena di ricordarlo, risale all’Ivanhoe di Walter Scott (e quindi al 1819) per descrivere quel cavaliere «mercenario» che di volta in volta mette la sua lancia (o spada) «libera» al servizio di un signore a sua scelta. Chissà se noi collaboratori free lance del terzo millennio ci siamo mai resi conto di usare un termine dal gusto tanto medievale.
La lancia (o il pennello, o la matita, o il compasso) di Leonardo sono affrancati dalla signoria di Lorenzo il Magnifico e possono scegliersi altri committenti, ammiratori, protettori. La condizione è quella di riuscire a guadagnarsi da vivere. Il dado è tratto.
Gli indaffarati milanesi che in quel giorno nel 1482 avranno lanciato uno sguardo incuriosito ai nuovi arrivati, i forestieri, rispondendo forse alle loro richieste di indicazioni stradali con quell’accento duro che sulle prime suonava così ostico a Leonardo, non sapevano di assistere all’inizio di un sodalizio storico. Nel rapporto di do ut des che si sarebbe presto intrecciato con la città e col duca, Leonardo avrebbe tirato fuori mille sfaccettature, dalle più frivole alle più serie. Maestro di cerimonie e ingegnere, architetto ed enigmista, favolista e inventore, pittore e costumista, chef e perfino vignaiolo, formalmente al servizio di Ludovico, in realtà pronto a sfruttare tutte le occasioni per imparare, sperimentare, innovare, ricercare.

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La chiusa di Leonardo (Brera)
La chiusa di Leonardo (Brera)

Perché Leonardo non sarebbe stato lo stesso senza Milano e Milano non sarebbe la stessa senza Leonardo. Ma chi è il signore al servizio del quale il nostro vorrebbe mettere la sua «free lance»?
Caso vuole che Leonardo abbia esattamente la stessa età di Ludovico il Moro: sono entrambi del 1452, solo che lo Sforza è di fine luglio, nato sotto il segno del Leone, e quindi ha tre mesi di più. Il suo vero nome è Ludovico Mauro, che diventa Ludovico Maria per un voto fatto da Bianca Maria Visconti, madre sua e di altri sette tra figli e figlie avuti dal duca Francesco.
Perché lo chiamino il Moro è controverso. Forse perché si chiama Mauro, forse perché è molto scuro di capelli e anche di pelle, forse perché per i milanesi il gelso, un albero molto apprezzato e diffuso nelle campagne, che dà frutto presto e serve ad alimentare i bachi da seta, ha nome «moro» o «morone», e lui potrebbe averne fatti piantare parecchi. C’è anche chi fa riferimento alla sua impresa, cioè al suo stemma «personalizzato» (diciamo che oltre allo stemma di famiglia i singoli membri di maggior rilievo di una casata avevano una propria insegna esclusiva), che pare raffigurasse uno scudiero di colore che spazzola con uno scopino la veste di una nobildonna. Il senso simbolico dell’immagine doveva essere che il Moro in persona avrebbe ripulito l’Italia da ogni bruttura. Ambiziosetto, visto il periodo decisamente complesso, ma molto indicativo del personaggio.
A Ludovico (e al suo ego) comunque il soprannome fa gioco perché «Sforza» potrebbe essere chiunque, «duca» potrebbe (e soprattutto, ahinoi, dovrebbe) essere suo nipote Gian Galeazzo, ma Moro è solo lui, l’unico e inimitabile. È il quarto figlio di Bianca e di Francesco Sforza e viene descritto di intelligenza pronta, di fisico forte, agile danzatore, buon cavallerizzo, ottimo arciere, tombeur de femmes impenitente, esperto di moda e amante dei fasti. Non essendo il primogenito, nessuno all’inizio scommette su un ruolo da vero protagonista per lui; invece il destino, ma soprattutto la sua abilità nel tessere trame, lo condurranno lontano.

Castello Sforzesco, Milano
Castello Sforzesco, Milano

Quando arriva a Milano, Leonardo probabilmente sa bene chi è il datore di lavoro con cui avrà a che fare e anche come ha fatto ad arrivare dove è arrivato. Ludovico si è formato in gioventù in missioni diplomatiche al fianco del fratello primogenito Galeazzo Maria, più grande di otto anni, come rappresentante degli Sforza in giro per le corti italiane. Alla morte del loro padre duca Francesco nel 1466, Ludovico è un ragazzo quattordicenne ed è Galeazzo, di ventidue anni, a succedere come legittimo duca di Milano. Ma il 26 dicembre 1476, poco prima di compiere i trentatré anni, il dissoluto fratello maggiore del Moro viene ucciso a pugnalate sotto il portico che allora si apriva sulla facciata della chiesa di Santo Stefano da tre presunti suoi «fedelissimi», Giovanni Andrea Lampugnani, Carlo Visconti e Gerolamo Olgiati, in circostanze molto simili a quelle che si verificheranno neanche due anni dopo nella congiura dei Pazzi a Firenze. Anche Galeazzo infatti, proprio come capiterà poi a Giuliano de’ Medici, non si mette la solita corazzina protettiva, lasciando il sicuro castello di porta Giovia (cioè il futuro castello Sforzesco). Pare proprio che il motivo sia la più banale civetteria, perché il giubbetto, figurarsi, lo ingrossava troppo sotto l’abito attillato della festa.
Anche se il duca muore subito sotto i colpi del trio, i congiurati non hanno modo di gioire del successo della loro impresa. Lampugnani viene ucciso all’istante dalle guardie del duca e gli altri due assassini vengono presi e giustiziati qualche giorno dopo. Prima di essere squartato vivo, già nelle mani di un boia che ha l’incarico di aprirlo dall’inguine al collo con un coltello, il men che ventiquattrenne Olgiati, secondo Niccolò Machiavelli, riesce a dire (beninteso, in latino, perché «litterato era»): «La morte è tremenda, ma la gloria è eterna». Ha in mente Bruto e gli ideali repubblicani: purché gli sia stato di consolazione.

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Leonardo da Vinci, Piazza Scala, Milano
Leonardo da Vinci, Piazza Scala, Milano

Che i congiurati avessero motivazioni personali e rancori come Lampugnani e Visconti, che fossero spinti dall’ideale di liberare la città da un tiranno come Olgiati, che i francesi c’entrassero oppure no nella congiura, sta di fatto che la città non si solleva affatto contro gli Sforza. Il serto ducale passa di diritto al figlio primogenito che Galeazzo ha avuto dalla moglie Bona di Savoia (e ci sia concesso un sorriso, nomen omen), una bella piemontese la quale in otto anni gli ha dato quattro figli. Il più grande si chiama Gian Galeazzo Maria (si conferma che in effetti non c’è gran fantasia con i nomi e che l’equivoco è sempre in agguato, quanti Galeazzi incontreremo!) e ha sette anni alla morte del padre. Ovviamente il duchino è troppo giovane, così il potere si concentra nelle mani dell’esperto cancelliere «storico» degli Sforza, Cicco Simonetta, e della ventisettenne vedova Bona, reduce da anni di bocconi amari, di spaventi e di tradimenti plateali da parte del marito e assai vogliosa di nuova vita.
Si apre così un periodo turbolento nel corso del quale tutti i fratelli del morto (Sforza Maria, Ascanio, Ludovico e Ottaviano) non fanno mistero di ambire alla corona, che traballa in testa a un bambino, mentre Bona, ansiosa di recuperare il tempo perduto, si lascia circuire da personaggi poco raccomandabili come il cortigiano ferrarese Antonio Tassini, suo ex «cameriere» (ducale, nel senso di gentiluomo di corte, non nel senso di colf) divenuto poi suo amante, ostile a Cicco Simonetta.
All’inizio Bona riesce a tenere a bada i cognati, prima spedendoli a domare una ribellione a Genova e poi esiliandoli di fatto separatamente (Ludovico finisce a Pisa). Durante le convulse vicende che seguono, ben due dei fratelli Sforza ci rimettono la pelle: prima Ottaviano, il più giovane, che a soli diciannove anni, nel tentativo di sfuggire ai sostenitori di Simonetta, cerca di guadare a cavallo l’Adda e annega; due anni dopo Sforza Maria, che muore all’improvviso a Varese Ligure, forse avvelenato, anche se studi recenti attribuiscono la sua prematura dipartita a una polmonite aggravata dalla obesità.
Nel bailamme Ludovico, che di fatto si è liberato di due fratelli (resta vivo solo Ascanio che però è un uomo di chiesa e farà una combattuta carriera a Roma, diventando cardinale nel 1484 e cercando di arrivare al pontificato), si rivela molto abile a sfruttare la situazione e a entrare nelle grazie della cognata, che si sente sempre più estromessa da Simonetta. Così va a finire che il cancelliere ormai quasi settantenne finisce sul patibolo, non prima di avere ammonito Bona con la famosa frase a effetto: «Io perderò la testa», pare che le abbia detto, più o meno, invitandola a diffidare di Ludovico, «ma voi perderete il ducato». E così avviene.

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Percorsi di Leonardo
Percorsi di Leonardo

Ludovico il Moro diventa coreggente del nipote nel 1480 e si mette subito d’impegno per allontanare il ragazzo dagli interessi di governo. In seguito lo farà anche sposare a diciannove anni con la diciottenne Isabella d’Aragona, e sarà Leonardo a organizzare i sontuosi festeggiamenti milanesi nel febbraio 1489, quando il matrimonio celebrato per procura qualche mese prima viene solennizzato. Anche se Gian Galeazzo Maria morirà soltanto nel 1494, probabilmente avvelenato, da anni ormai il duca di Milano è di fatto il suo caro zio Ludovico.
Quando Leonardo da Vinci approda a Milano e conosce personalmente lo scaltro e ambizioso Ludovico, è già successo tutto: Bona, vedova di Galeazzo e madre di Gian Galeazzo, è stata esiliata nel castello di Abbiate, anzi Habiate (Abbiategrasso, ma allora si chiamava solo Abbiate); Cicco Simonetta è stato decapitato nel castello di Pavia, riconosciuto colpevole da giudici compiacenti di una serie di delitti tra cui l’avvelenamento probabilmente mai avvenuto di Sforza Maria; Gian Galeazzo, il vero duca di Milano per nascita, è un ragazzo di tredici anni che si affida fiducioso allo zio e ha molta più voglia di divertirsi che di occuparsi di questioni di governo.
Questo è dunque il mecenate di Leonardo, il quale dal canto suo non si fa troppi scrupoli e nemmeno troppe illusioni: molto moderno anche in questo approccio che definiremmo assolutamente «laico» nei confronti dei suoi datori di lavoro, come vedremo anche in seguito. Quel che davvero attira il giovane da Vinci non è Ludovico, ambizioso e senza scrupoli, che diventa solo un mezzo (come direbbe l’amico Machiavelli!), quanto l’ambiente, l’entourage del Moro, la Milano sforzesca.

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