Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Il risveglio della Birmania

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Il sud est asiatico per la sua ricchezza culturale, la bellezza dei paesaggi, l’innata spiritualità attrae turisti e viaggiatori da tutto il mondo. In quest’area si trova la Birmania che si è avviata verso la normalità democratica. Proprio a questo paese Mondointasca dedica uno speciale racconto di viaggio. Iniziamo con Yangon, la capitale economica

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Pagoda Shwedagon

Il sud est asiatico attira visitatori da tutto il mondo: Thailandia, Cambogia, Laos, Vietnam, Malesia, Indonesia, Filippine… tutte destinazioni prese d’assalto per la ricchezza culturale, la bellezza dei paesaggi, la scoperta culinaria, l’innata spiritualità, la ricerca di esotismo e, non ultimo, il basso costo della vita. Ma tra questi c’è un paese troppo a lungo dimenticato, come se fosse rimasto oscurato dal planisfero. Un paese che non è mai entrato in competizione con i suoi vicini né con gli altri stati del mondo occidentale.

Sto parlando della Birmania che è passata, quasi senza soluzione di continuità, dalla lotta per l’indipendenza alla lotta per la democrazia. Nel 1948 la Birmania ottenne l’indipendenza dalla corona britannica anche se, di fatto, la democrazia restò più un ideale che una realtà. Nel 1962 un colpo di stato militare consegnò il paese nelle mani del generale autocrate Ne Win. Seguirono anni di dittatura durante la quale il paese si chiuse in se stesso: malgrado i reiterati tentativi di insurrezione popolare, la Birmania restò per decenni sotto il giogo della giunta militare.

Aung San Suu Kyi simbolo della lotta per la democrazia
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Pagoda Shwedagon interno

Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza della Birmania e Premio Nobel per la Pace nel 1991, ha portato avanti con coraggio e determinazione la lotta contro il regime. Dedicando e sacrificando parte della propria vita in nome della libertà. Il primo grande cambiamento è avvenuto nel 2011 con un ammorbidimento della politica di Min Aung Hlaing, comandante in capo dell’esercito birmano, l’ingresso in parlamento dei membri della NLD (Lega Nazionale per la Democrazia capeggiata da Aung San Suu Kyi) e l’apertura del paese verso l’esterno.

A distanza di quattro anni, lo scorso 8 novembre, il paese ha visto il trionfo della democrazia con il primo scrutinio libero dopo decenni di dittatura.
Spinta dal desiderio di valori autentici e tradizionali, non inquinati dagli ideali occidentali, sono partita nel 2013 alla volta della Birmania per conoscere il suo popolo ancora così poco avvezzo al turismo di massa. E ho trovato un paese controverso che consiglio vivamente di visitare… quanto prima!

 Birmania: la caotica Yangon
Birmania Yangon ragazzi monaci
Yangon, ragazzi monaci

Atterro a Yangon, la capitale economica del paese, nel tardo pomeriggio di una domenica d’agosto. Siamo nella stagione delle piogge e la speranza che la fortuna mi assista si rivela vana. Nonostante sia domenica, la città è congestionata dal traffico. Raggiungo la mia guesthouse  che è ormai inghiottita dall’oscurità. La stanchezza del lungo viaggio aereo e la differenza di fuso orario inizia a farsi sentire. Una cena frugale in un ristorantino dirimpetto al mio alloggio e mi catapulto a letto.

Prima della dittatura la Birmania era una realtà multietnica che accoglieva cinesi, turchi, indiani e altre popolazioni in fuga e, sebbene il buddhismo sia la religione tuttora più diffusa, non mancano altre credenze religiose che coabitano nel rispetto e nella tolleranza reciproca. Di fatto, la gente sembra cordiale e disponibile e ha il sorriso stampato in faccia come un francobollo! Non conosco l’Asia, fatta eccezione per l’India, ma tutti dicono che gli asiatici sono una popolazione splendida.
Yangon, che fino al 1949 portava il nome di Rangoon, è il cuore pulsante del paese e dall’apertura delle frontiere attira investitori da tutto il mondo. Le sollevazioni contro il governo militare sono costate la vita a migliaia di persone e dalla fine della dittatura i birmani si vedono accordate sempre più libertà, economiche e politiche.

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Birmania: alla ricerca dell’anima
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Yangon, streetfood

Nei due giorni che ho trascorso a Yangon l’ho percorsa come un cane sciolto fiutando qua e là. Mi interessa respirarne l’aria e cercare, per quanto mi è consentito, viste le difficoltà di comunicazione, di coglierne l’anima. Perché io credo che non è quel che vedi ma quel che senti a restarti dentro. Il mio unico must è la Shwedagon Paya, la grande Pagoda.
Innanzitutto è necessario un k-way di tutto rispetto! Per fortuna se ne trovano a ogni angolo della strada. Un consiglio. Evitare la stagione delle piogge… e se proprio non è possibile equipaggiarsi bene. Incelofanata di tutto punto in uno scafandro giallo, decido di incamminarmi verso il centro. Più facile a dirsi che a farsi perché senza una mappa non si va da nessuna parte.

La gente, per strada, non parla inglese! Ma io non ho nessuna voglia di andare in giro con la Lonely Planet che dà l’idea di turista e non di viaggiatore per cui inizio a camminare, da qualche parte arriverò. Ho con me il biglietto da visita della guesthouse e mi sento relativamente tranquilla. Mi lascio trasportare dal flusso di gente, senza chiedermi né dove né perché, per le vie di questa città in costante movimento, con il rumore dei clacson, dei mercati, delle preghiere recitate dai monaci e dagli odori molto forti. Un delirio che mi conduce da un mercato all’altro, con l’esplosione dei colori di frutti a me ignoti, e mi fa approdare infine a chinatown, il luogo per eccellenza dove provare lo streetfood o sorseggiare un tchai alla birmana, appollaiati su uno sgabellino di plastica a ridosso della strada.

Visita alla maestosa pagoda Shwedagon Paya
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Pagoda Shwedagon Paya

Osservo il via vai della vita quotidiana di questo popolo oppresso da anni di regime che gli ha tolto la libertà ma non il sorriso dalle labbra fino a quando, al calar della sera, mi reco alla Shwedagon Paya, la prima di una lunga serie di pagode che visiterò. La Shwedagon Paya però non è semplicemente una pagoda. È la Pagoda. Lo spettacolo che mi trovo davanti è di una bellezza disarmante.
Un maestoso complesso religioso, il più importante del paese, la cui punta di diamante è lo stupa interamente ricoperto d’oro che svetta a 98 metri d’altezza e domina il profilo della città. A fare da vassalli, una settantina di stupa minori e sfilze di pellegrini che si recano a rendere omaggio alle reliquie dei quattro Buddha ivi conservate.

Un’atmosfera davvero mistica e suggestiva quella che si respira al suo interno, specialmente al calar della sera quando gli ultimi raggi di sole la rendono quasi incandescente.
Assorta dalla meraviglia che ho davanti perdo la cognizione del tempo. La devozione dei pellegrini è tangibile. “I buddhisti credono che alcuni atti possano avere delle ripercussioni favorevoli sulla vita futura” racconta una voce in francese a un gruppo di turisti. Tendo l’orecchio. “Pulire la statua del Buddha il giorno del compleanno, ad esempio, è ritenuto di buon auspicio e ha conseguenze positive sul kharma”. Decisamente affascinante questa filosofia, penso allontanandomi.

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Alla ricerca della scarpe
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Pagoda Shwedagon

Uscire dalla pagoda è un terno al lotto! L’emozione di trovarmi lì non mi ha fatto memorizzare la porta da cui sono entrata e trascorro un’altra ora buona al suo interno per cercare di ritrovare le mie scarpe. Possibile che nessuno parli inglese?
Sono quasi rassegnata a rientrare scalza quando mi imbatto nella guida di lingua francese che mi tira fuori da questa situazione a dir poco imbarazzante.
A letto senza cena: dopo le 19.00 è difficile trovare ristoranti aperti a quanto pare. Poco male… i monaci birmani non toccano cibo dopo le 11 del mattino, non morirò di fame se salto un pasto!

A passeggio tra decadenti architetture coloniali

Il secondo giorno a Yangon trascorre lento, passeggiando tra le decadenti architetture coloniali del centro città e assaporando l’atmosfera che si respira per la strada: c’è di tutto e il mio unico rammarico è quello di dovermi limitare a osservare, senza poter interagire con la gente. Sono catapultata in un mondo che non mi appartiene e la curiosità mi divora.
Vorrei sapere come vivono loro (i birmani comuni) questo momento di transizione; come vedono il turista, cosa si aspettano dal futuro. Mi piacerebbe sapere anche, ad esempio, perché vendono libri contraffatti, se per praticità ed economicità o se si tratta di una pratica usata sotto il regime che è poi diventata consuetudine, e cos’è quella cosa rossa che masticano in continuazione e che poi sputano a terra, simile al sangue. Ma dopo l’esperienza della Shwedagon Paya ho capito che a volte le risposte arrivano da sole, senza bisogno di affannarsi.

Dal caos di Yangon a una nuova dimensione oltre il fiume
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Yangon, barche in secca

Decido di lasciarmi alle spalle il caos e la confusione con una gita che mi regali un paesaggio più rurale. Ho letto che basta attraversare il fiume per proiettarsi in un altro mondo e in un’altra dimensione. Ed è quel che faccio. Con estrema fatica riesco a raggiungere il molo, traghetto dall’altra parte in un villaggio di cui, ahimé, non ricordo il nome, e contatto un trishaw che mastica un po’ d’inglese per farmi portare a spasso un paio d’ore. Il prezzo è talmente irrisorio che non vale nemmeno la pena contrattare.
Rispetto alla caotica Yangon, sembra di aver fatto un salto temporale nel XIX secolo. Stradine in terra battuta calpestate quasi esclusivamente dai piedi della gente e dalle ruote di qualche trishaw, una ricca e folta vegetazione e un’atmosfera a dir poco rilassante.

Il desiderio esaudito di una birra ghiacciata

Avrei voglia di bermi una bella birra fredda ma dubito di riuscire a soddisfare il mio desiderio. Sembra però che l’amico del trishaw mi legga nel pensiero perché qualche minuto dopo si ferma davanti a qualcosa che ha l’aria simile a un bar e mi invita a scendere. Clientela unicamente maschile che mi osserva come se provenissi da un altro pianeta. Non amo bere da sola per cui invito il mio nuovo amico a tenermi compagnia. È stato di una gentilezza squisita, rifletto mentre osservo il suo sorriso sdentato e l’esile corpo avvolto nel lonhyi, l’abito tradizionale birmano. Gli lascerò sicuramente la mancia, penso mentre pago le birre e mi appresto a risalire sul mezzo.

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Sulla strada del ritorno percepisco qualcosa di cupo nel suo atteggiamento. Gli chiedo se va tutto bene, se ha qualche problema, e lui inizia a raccontarmi nel suo inglese elementare della madre in punto di morte che non ha i soldi per far curare. Ben venga la mancia, penso tra me e me mentre lo ascolto parlare. Non gli cambierà la vita, ma non la cambierà nemmeno a me. Mi ha chiesto 6.500 kyat, poco più di 5 dollari, per due ore abbondanti di passeggiata sotto il sole ma gliene lascerò 10.000. Mi sembra equo.

Imprevisti di viaggio. Dalla gentilezza alla cattiveria
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Yangon, trishaw

Ed ecco che arriva la sorpresina inaspettata. Quando gli allungo i 10.000 kyat mi guarda con un’espressione agguerrita e inizia ad alzare il tono della voce mugugnando qualcosa nella sua lingua a me incomprensibile. Il molo è gremito di gente che si volta a guardarci. Non capisco cosa voglia da me, e mi maledico per non essermi informata prima al riguardo. Cerco di comunicare con lui ma a quanto pare il ragazzo non parla inglese. Non più almeno… Inizio a innervosirmi, mi sembra di essere la vittima di un film fantozziano. La gente si avvicina incuriosita e mi guarda male. Mi sento terribilmente a disagio… fino a quando interviene uno che mi spiega, misericordioso, il misunderstanding. Il prezzo della passeggiata era di 6.500 kyat all’ora e visto che abbiamo superato le due ore gliene devo dare 20.000. Sono basita!

Un voltafaccia simile non l’avevo mai visto da nessuna parte, e non sono certo una viaggiatrice novella! Non ho né il tempo né la voglia di mettermi a discutere per cui gli do i 20.000 kyat e me ne vado senza nemmeno salutare.
Salgo sul traghetto con un misto di rabbia e delusione. Ma non voglio rovinarmi il viaggio, né tanto meno essere prevenuta nei confronti di questo popolo di cui tutti decantano la gentilezza e l’onestà. Si è fatto tardi, corro alla guesthouse a prendere il mio zaino. La mia prossima tappa sarà il Lago Inle, nel centro della Birmania. Pare sia un angolo di paradiso, ma per raggiungerlo dovrò passare per il purgatorio! Tra le quindici e le diciassette ore di autobus… il tempo necessario per sbollire!

Leggi le puntate successive:
2. “Birmania: nella mistica Bagan”
3. “Birmania: Mandalay l’ultima capitale

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