Cusco è diversa dalle altre città peruviane. I suoi edifici si ergono sulle antiche mura incaiche. Resistite alla disastrosa conquista spagnola cheha cambiato i connotati al centro politico, economico, astronomico e sociale dell’intera regione. Cusco è stata massacrata più di tutte le altre città conquistate. Sta chiusa in una gola stretta, dove lo spazio edificabile ridotto ha spinto le case sui fianchi delle colline circostanti.
Di notte, a Cusco, le luci offrono un gioco panoramico molto più suggestivo che la vista cementizia diurna. Sono 485 mila gli abitanti che vi devono trovare posto, non vi è quindi alternativa all’espansione edilizia in altitudine.
Per le strade si mescola la genetica della sua storia. Appaiono i visi dei nativi. I colori delle donne andine nei loro abiti tipici, tratti meticci e reminiscenze spagnoleggianti in posture modi e idiomi diversi. Sguardi e nasi di diverse forme.
Cusco riferimento dell’ultima civiltà andina
Cusco è diversa dalle altre città peruviane. È stata capoluogo dell’ultima civiltà andina. Eccola la sua caratteristica principale. Si dice che tutte le strade portino a Cusco, ombelico del mondo andino. C’è un’altra città eterna che vanta questo titolo. Anch’essa fondata da una civiltà che la storia l’ha scritta e tracciata in chilometri e chilometri di strade. Come gli antichi romani, gli inca ne realizzarono 16 mila. Considerando la geografia dei luoghi, in cui la ruota era praticamente inutile, mancavano mezzi di trasposto. Questo dettaglio non ha comunque limitato una fiorente architettura, grazie alle numerose cave di pietra vicine ai più importanti siti.
Lungo le strade principali o abbandonate ai margini della Valle Sacra, si trovano ancora le cosiddette “pietre stanche”. Rimaste lì, inutilizzate, senza arrivare alla loro destinazione d’uso. Andesiti basaltiche, arenaria, graniti, tufo, diorite verde, porfido rosso, diverse qualità di pietra che si differenziano tra loro non solo per geologia ma per altitudine. A livello del mare, infatti, dove i minerali sono meno, le pietre sono monocromatiche. Assumendo sfumature e colori man mano che, salendo di quota, si arricchiscono di manganese, caolino, ferro, zolfo. Blocchi che venivano levigati, sagomati, non tagliati ma consumati con una miscela di ferro andino, sabbia e acqua.
Cusco museo a cielo aperto
Diversa dalle altre città peruviane, Cusco è un museo a cielo aperto della più fine architettura del Paese. Lascito degli Inca e di tutte le tecniche e le conoscenze acquisite dalle civiltà che gli hanno preceduti, volte in sostanza ad un’efficiente funzione antisismica. Muri inclinati fino a un massimo di 23, 24 gradi (minimo di 3) in cui venivano intagliate nicchie trapezoidali a distanza di 80, 90 centimetri per alleggerire la struttura, e tutto un ingegnoso sistema d’incastro maschio / femmina (la legge che sorregge il mondo, figuriamoci i muri!). Pietre più piccole venivano inserite in verticale tra lastre più grandi come ammortizzatori che, in caso di scosse, assorbivano i carichi e rompendosi, più facili da sostituire, preservavano i blocchi di gran lunga più pesanti.
Il Perù è una terra che è stata ed è sempre in movimento, situata lungo la Cintura di Fuoco del Pacifico, ha ormai sviluppato un modo tutto suo di classificare gli eventi vulcanici, che sotto i 4, 5 gradi della scala Richter non vengono nemmeno considerati terremoti ma temblar.
Ogni 300 anni un terremoto sconvolge la città
Cusco è diversa dalle altre città peruviane anche per la “sua” particolare attività sismica. Evento che si manifesta a cadenza così regolare da sembrar davvero un mistero naturale inspiegabile. Ogni 300 anni un terremoto sconvolge la città. Già nel 1350 gli Inca si son visti crollare muri ed edifici. Poi nel 1650 il più devastante l’ha ridotta quasi in polvere. Del terremoto del 1950 si vedono ancora le crepe e le conseguenze nelle chiese.
Prima di costruire un edificio veniva fatto un approfondito studio del suolo, per poi innalzare la costruzione in base alle “tre S”: solidità dei muri inclinati, semplicità delle pietre lasciate al naturale e simmetria, per creare un perfetto gioco di prospettive. I tetti erano in paglia o in legno che, troppo faticoso da prelevare dalla foresta Amazzonica, arrivava via mare dal Centro America. L’85% delle costruzioni Inca sono rustiche, di pietre squadrate e poco lavorate, mentre nel 10% dei casi le lastre venivano finemente lavorate ed incastrate tra loro. In uno stesso sito archeologico si possono trovare i diversi gradi di lavorazione a seconda della funzione e della posizione nella struttura.
Ollantayambo, nella Valle Sacra esempio di architettura
Un meraviglioso esempio architettonico è il sito di Ollantayambo, lungo la Valle Sacra. Una città inca aggrappata alla montagna, i cui fianchi sono stati consolidati da un sistema di ampi terrazzamenti, tra i quali salgono strette gradinate che portano in alto. Non per motivi di sicurezza, ne per sentirsi più vicini al cielo ma solo per mancanza di spazio più in basso. Salendo si raggiungono camminamenti orizzontali, quasi lunghi corridoi dalla vista panoramica unica che uniscono le case incastrate negli anfratti, tra cactus, agavi e una sorta di “barba vegetale”, che parrebbe un lungo e secco lichene a ricoprir le rocce.
In un attimo mi sono trovata lassù. Come se i miei passi conoscessero già quei camminamenti dall’acciottolato rustico e sconnesso, la mente ha assunto in un attimo nuovi punti di riferimento, osservando particolari nuovi e provando ad immaginare una vita lassù.
Commercio lungo la strada
Chissà se ci si abitua a vedere il mondo dall’alto? La vista si espande e domina la valle: larga, verde, accompagnata dal fiume Urubamba che la rende fertile e armoniosa con le sue anse lente. L’antropizzazione non disturba particolarmente: appezzamenti, coltivi, pascoli e paesi divisi in due dalla strada che li attraversa, favorendo il “mercanteggiare al volo” la propria mercanzia tipica con chi vi transita: cuy (porcellini d’India allo spiedo), chicharrónes (cotenna di maiale fritta), frutta, grosse forme di pane, pannocchie di mais lessate ricoperte di queso (formaggio).
Boschi di eucalipti fitti o sparsi tra i campi donano una tonalità linfatica in più al lussureggiare della vegetazione. Una tinta che mi auguro cambierà nel tempo, sostituendo a questa specie idrovora, che autoctona non è, la ben più adatta queña (Polilepis incana) o il cedro. Mi è parso di capire, parlando con alcune guide locali, che sia già in atto un provvedimento, volto alla tutela della biodiversità ed al ripristino delle specie endemiche.
Conquistadores: l’arte al posto della preghiera per evangelizzare
La cattedrale di Cusco è un vero e proprio scrigno di tesori. Un museo in cui il mecenatismo cattolico dei conquistadores ha investito in arte per diffondere l’evangelizzazione. Vista da fuori la cattedrale occupa un lato della piazza principale della città (la piazza “del pianto”, per tutte le crudeltà storiche cui ha fatto da palcoscenico), ed è costituita da tre chiese, una adiacente all’altra.
Un trionfo di Barocco qusqueño, ultimo e decisivo baluardo di sottomissione e conquista nei confronti dei nativi. La Spagna infatti, di fronte alle rivolte peruviane, fece dell’arte un codice di soggezione, infondendo terrore e mostrando per metafore pittoriche e scultoree ciò che l’ingenuità delle popolazioni andine non concepiva come credenze religiose e divine. Storpiando il messaggio cristiano l’evangelizzazione usò l’arte al posto della preghiera, richiamando in tutto il Paese artisti europei, anche italiani, che nel 1600 sbarcarono in terra andina per insegnare l’arte ai nativi (tra questi il Medoro ed il manierista Bitti). A Cusco si costruirono le prime cappelle; fiorirono chiese sfruttando le risorse del territorio, come argento, legno, pietre preziose e la mano d’opera locale, che accettò comunque di buon grado la possibilità di imparare le varie tecniche, con per giunta, ottimi risultati.
La diffusione dell’arte europea
Cusco culla dell’arte europea. Da essa si diffuse in tutto il Sud America. Il 99% dei dipinti sono copie di pittori europei e delle varie scuole artistiche. Solo tre opere si possono annoverare come originali peruviane. Tra queste, una stupenda “Ultima Cena” di Marcos Zapata, conservata nella cattedrale di Cusco, fa emergere dalla tela un sotteso messaggio di rivolta sociale da parte dell’artista, che, pur rispettando i canoni manieristici europei, inserì elementi tipici della sua cultura territoriale e tradizionale.
Il cielo sullo sfondo è quello andino e in mezzo al desco fa bella mostra di se un cuy arrostito a puntino, contornato da frutta e verdura peruviana, il tutto offerto con rispetto al Dio degli europei: ospitalità e consapevolezza espresse a pennellate.
La gente andina accettò il cattolicesimo, trovando così il modo di non soccombere e venir annientato, trasmutando in riti nuovi le vecchie tradizioni quando necessario.
Mi ha fatto beffardamente sorridere una specie di scultura muraria conservata a Qorikancha (ai tempi degli Inca il “Recinto d’oro”), centro politico ed astrologico, che dopo la conquista diventò un convento gestito dai domenicani (Iglesia Santo Domingo) a Cusco. Ebbene, se questi invasori volevano sapere come la gente del posto rappresentasse Dio, un artista andino eseguì di proposito una tavola dorata, ricca di simboli ed emblemi, per riassumere con semplicità le credenze del popolo. La luna con il sole. L’energia maschile della pioggia che feconda quella femminile della terra. Arcobaleni, costellazioni e montagne. Trinità dei regni legati alla Pachamama in musi felini, spire di serpente e ali di condor. Descrizione di quello che in effetti fu un monoteismo che si concretizzava in una condotta ecologica e sociale in armonia con la Natura. (3ª puntata – continua)
Info: www.peru.travel
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