Ci sono record che è un peccato non migliorare, perderne la titolarità. Uno di questi, per quanto concerne il qui presente scriba, è l’anzianità di presenza alla fiera spagnola del turismo, la madrilena Fitur. Cominciai ad andarvi (prima sarebbe stato un tantino difficile) quando cominciò, 32 o 33 anni fa, nei capannoni tra i pini mediterranei galleggianti sulle colline della Casa de Campo quasi sempre battuta da un gelido vento (tant’è che a fine Fitur se ti ritrovavi con una semplice bronchite potevi dire che ti era andata di lusso). Perché Ignacio Vasallo, un tempo demiurgo del turismo spagnolo milanese, adesso nella Ville Lumière, dice bene quando afferma che la Spagna (al netto delle olografiche e stereotipate tardes de toros nell’estiva Andalusia) è un Paese freddo (i motivi? l’altitudine media e i venti à gogo dall’Atlantico).
Ansie e inghippi monarchici
Ad ogni buon conto, per il conforto dei miei bronchi, da qualche lustro la Fitur è stata trasferita nel Parque Ferial Juan Carlos I. E a proposito (breve inciso) del sovrano c’è chi in questi giorni parla (fosse solo per imitare le ultime regine di Olanda) di una sua abdicazione. E ce credo: prima si fa cuccare con morosa ad accoppare tranquilli elefanti; poi, ‘sembra’ che uno dei suoi due generi, nonostante sia stato da Lui nominato duque, per l’esattezza de Palma (di Maiorca) si sia comportato disinvoltamente con il denaro (altrui) – secondo gli inquirenti se l’è cuccato – e vai a sapere se la di lui sposa, nonché Infanta quindi figlia del Re, ‘sapeva’. Per dirla col poeta, se oggidì nella a me cara Spagna allignassero gli stessi ardori repubblicani coltivati nell’altrettanto a me cara Romagna, beh, non mi stupirei se a sud dei Pirenei qualcuno fischiettasse l’Himno de Riego (inno nazionale durante il Trienio Liberal, 1820, eppoi nella prima, 1873, e seconda Repubblica, 1931).
Fitur e Bit, sorelle (quasi) siamesi
Ma torniamo alla Fitur, sennò va a finire che, per ripicca, i miei amici spagnoli mi tirano fuori le mariconadas (puttanate, stronzate, dizionario Herder) del Berlusca e il malaffare del Monte dei Paschi di Siena (sfruttando le cui mazzette il banchiere iberico Botìn, nomen omen, ‘sembra’ abbia tirato su un montòn di soldi). E a quel punto – italiano almeno di passaporto – mi ritroverei (la diatriba finisce sempre lì) a dover difendere l’olio del Belpaese da quello ispano, che poi, detto tra noi, sono la stessa cosa, nel senso che tutto dipende soltanto dall’onestà di chi lo fa. Una Fitur che continua ad attrarmi (vedi sopra) nonostante tre dubbi (in crescente ordine di importanza):
1° E’ quasi concomitante con la milanese Bit (priva però di Mariachis che cantano e ballerine nicaraguensi che danzano).
2° Costa sempre più caro andarvi (e quel che racconti non te lo pagano più, anzi, andrà di culo se a breve il cronista, almeno quello turistico, non dovrà pagare per descrivere quel che narra).
3° Sono ormai rare le godurie gastronomiche che ante crisi ti ammannivano negli stand (al secolo il jamòn che dico io).