Premessa
: A “Servizio Pubblico”, nella Corrida tra Berlusconi e Santoro, quest’ultimo l’ha detta grossa, definendo Granada (forse pensando alla nota canzone di Agustìn Lara) “città taurina”. Ma la città taurina per eccellenza è (invece) Cordoba, patria dei mitici “Califas”, quattro grandi toreri, ultimo dei quali, Manolete.
Tanto grave errore mi obbliga a ritornare sul (da me molto amato) argomento “tori e torweri”. E per saperne di più: Diccionario de la Tauromaquia, Espasa Calpe – che è pure una bella libreria sulla Gran Via, 1995, Madrid.
Tardes de Toros. Che passione!
Ebbene sì, lo ammetto, le vie della aficiòn taurina sono infinite. Me ne ero già reso conto, ma solo parzialmente, quando tanti anni fa scoprii (e ovviamente ne divenni socio) un Club Taurino a Milano. Una sorpresa, per me, non parliamo poi per la consorte del console spagnolo di Milano, una ganadera-allevatrice (beninteso di toros bravos) sivigliana, che, invitata a una nostra festa si ritrovò tra bauscia commentanti corride (ricevevamo quasi in tempo reale le cassette delle più importanti tardes de toros) fors’anche meglio dei più sapienti aficionados suoi concittadini.
Corride, Siviglia, la Plaza di Madrid paragonabile alla Mecca della tauromachia universale, quindi Spagna. Va però subito precisato che la passione per questo spettacolo è radicata pure in Francia (del sud) in Messico, Colombia, Perù, Venezuela e, in differente versione, nel Portogallo.
Toros Bravos. Una razza a sé
2. Importante: per toro bravo non si intende il nostrano coniuge delle mucche pascolanti nel Chianti o nella bassa lodigiana: si tratta invece di un signor bestione da combattimento, il toro iberico, appartenente a una razza speciale che scomparirebbe lo stesso giorno in cui finissero le corride (vecchia tesi di tauromachi e tauromani a difesa e giustificazione della loro passione).
La ganaderìa, allevamento, perpetua la stirpe concedendo lunga e invidiabile vita (pascoli e aria pura della dehesa, pianura) a sementales, riproduttori, e vacas bravas, le mammine. Il toro impiegato (dal 3° anno di età, novillo) nella corrida viene invece ucciso perché ormai non più utile (ha già imparato tutto davanti alla capa e alla muleta, come dicevano antan i toreri sa già il greco e il latino). Ma se ha lottato valorosamente viene indultado (evento sempre più frequente, è il caso di Balsa, recentemente graziato da El Juli a Manizales, Colombia).
E una volta deceduto nulla si butterà via del toro: la sua carne, quasi sempre stufata, sarà servita nei ristoranti (generalmente vicini alla plaza). E richiestissimi sono le criadillas (i suoi gioielli ) perché (molti ci giurano) favorenti extrapoteri mascolini (porcacciona libido machista: quante tartarughe non vengono al mondo sulle spiagge del Pacifico solo perché i maschi asiatici ritengono le loro uova afrodisiache).
Aficionados di “gran” nome
Uno spettacolo chiacchieratissimo. E se già son certo di ricevere strali definendo la corrida uno spettacolo, chissà l’incazzatura di qualche lettore se pure aggiungo che nel mundillo taurino è considerata un’arte. Mah. Forse arte è una parolona, e posso solo salvarmi in corner commentando che immortalare los toros costituì la grande passione di Goya e Picasso e furono grandi aficionados Hemingway, Orson Welles, tanti altri scrittori – ma non sto lì a scomodare Garcia Lorca – e artisti, e aggiungo il romagnolo di Zìrvia/Cervia, Max David, grande inviato del Corriere, che sul mondo taurino scrisse il bellissimo “Volapiè”. A ‘sto punto non mi resta che narrare quel che so sulle corride, previe due precisazioni.
Tori “italiani”. Trascorsi storici
1. La tauromachìa
è nata con l’uomo e ha universalmente rappresentato la sfida, l’antitesi tra il bipede e la bestia, la fiera: il minotauro a Creta, i gladiatori del Colosseo, i combattimenti coi tori in Germania nel ‘500.
Anche in Italia si svolsero corride in posti che oggidì si escluderebbe essere stati plazas de toros: la piazza del Campo (quella del Palio) a Siena; quella Nuova a Bergamo Alta (posso produrre la cronaca di una corrida del 6 febbraio 1567); le cacce nei primi anni dell’800 in alcune città marchigiane. Vi fu aficiòn taurina pure tra i bùgia nein piemontesi (spettacolo di tori a Novara, in occasione delle nozze di Vittorio Emanuele I e ultimamente coinvolse financo quei pigroni dei romani (verso la fine degli anni ‘Venti del secolo scorso, una vera e proprio Feria de Toros allo stadio Flaminio, allora chiamato del Partito Fascista).
Da Ronda, Andalusia, le regole della corrida
Tanto per dirla grossa, la storia della corrida, alias la lotta tra l’uomo e la bestia, vanta pure risvolti sociologici. Fino al ‘700 la sfida al toro era esclusiva dei sciur, che poi erano i nobili (gli unici che possedevano la grana, mentre oggidì ricchi possono esserlo tutti, ancorché nel Belpaese si continui a confondere i ricchi con i borghesi). Spuntata nella Spagna post illuminista la borghesia e lasciato un filino di spazio pure al popolino, anche ai pover crist divenne possibile lidiar el toro, ma solo a piedi, si intende, e poco ormai importava se le capas (mantello o tabarro) agitate non erano più quelle lussuose firmate dagli Armani e dai Versace del tempo.
E così el proletario (ma già señor, così volle la Rivoluzione francese) Pedro Romero, di Ronda – bella cittadina andalusa che si vanta, a ragione, di essere la culla della moderna tauromachìa – inventò e diede regole alla corrida che ammiriamo oggidì nelle Plazas de Toros. Corrida che si articola in sei combattimenti, lidias, tra altrettanti tori e tre espadas o matadores che – nell’ordine di uscita dal callejòn, il corridoio protetto dalla barrera, palizzata – affrontano rispettivamente il 1° e il 4°, il 2° e il 5°, il 3° e il 6° toro. Olé! – che durante la corrida il turista avrà il buon gusto di non gridare, datosi che è sempre fuori tempo e a sproposito. (1- continua giovedì 31 gennaio)