Apro una parentesi nel racconto della mia gita egiziana per dire la mia sulla risposta di Sergio Romano (Lettere al Corriere, 22/10, “La scelta difficile dell’Egitto, il turismo o l’ortodossia”) a un lettore che al brillante storico, giornalista ed ex ambasciatore chiedeva lumi sulle recenti vicende politico-religiose in quel Paese.
“Tornato in Egitto dopo lunga assenza” – scrive Romano – “in visita al Gran Muftì gli dissi che ero stato sorpreso dalla evidente islamizzazione dei costumi in città, come il Cairo e Alessandria che con Algeri, Tunisi e Beirut, erano state fra le più europee dell’Africa del nord”. Dopodiché, dichiaratosi incapace di rispondere a due domande (“Quale sarà il ruolo dei moderati? Riusciranno a impedire la deriva integralista?”) il titolare della valida rubrica del Corriere “consiglia” al lettore “di tenere d’occhio il giro d’affari delle agenzie che organizzano viaggi nelle maggiori località turistiche egiziane. Il turismo è stato per molto tempo una delle maggiori fonti di reddito del bilancio egiziano. Prima o dopo Morsi (attuale presidente) dovrà decidere se consentire i bikini, i calzoncini corti, il vino negli alberghi, la vendita della stampa straniera con le sue foto licenziose, o perdere una delle principali fonti di valuta straniera per l’economia egiziana”.
Percorsi (turistici) ben definiti
Non sono molto d’accordo con Romano e da eterno saputello (ma in questa gita un po’ di ‘turismo egiziano’ l’ho bazzicato) dico la mia sulla convivenza dei rigidi integralisti islamici con i turisti provenienti dalle sataneggianti contrade del peccato. Problema di poco conto, a mio parere, vista la separazione, fisica e non, esistente nel sia pur poco spazio abitabile lasciato dal deserto agli 85 milioni di egiziani e a poche migliaia di turisti. Come in tanti altri Paesi del mondo, le possibilità che residenti e viaggiatori si incontrino (da cui il rischio che si ‘scontrino’) sono scarse: lo straniero ha i suoi alberghi, i suoi itinerari, i ‘suoi’ monumenti ed è portato in giro da addetti ai lavori che ça va sans dire “la pensano” (o fanno finta di pensarla) come i loro clienti. Le impiegate di agenzie viaggi e di custoditi alberghi (alcol? solo un problema: è carissimo) vestono (sindacalmente?) all’occidentale (d’altro canto chi darebbe il bakshish (mancia) a una ‘celata’ guida in Burka o Chador qui chiamato Niqab?). Vabbè, negli uffici pubblici è “tornato di moda” il velo (se ‘islamico’ chiamasi Hijab) ma penso proprio che ad attrarre un turista in Egitto sia la Sfinge, non uno stato di famiglia.
A ciascuna donna, il suo “costume”
La suesposta sorta di apartheid, separazione tra turisti e indigeni si verifica nelle città visitate dal turismo culturale. Non parliamo poi delle località balneari laddove è ancor più netto l’isolamento tra i locali e gli stranieri sguazzanti sulle spiagge di Villaggi e Resorts. Più sulla costa mediterranea che sul Mar Rosso (al Domina di Sharm el Sheikh ti portano pure a far shopping in città) nei ‘ghetti turistici 4*’ (alcuni lussuosi) vigono, più o meno velati, i suggerimenti/consigli di non ‘evadere’. Ma a proposito di isolamento, compounds, spazi proibiti, sul litorale che da Alessandria si estende fino alla Libia vieppiù off limits sono i condomini e le numerose non meno che faraoniche urbanizzazioni della casta militare. Né Romano tema guerre di religione escludendo la possibilità di convivenza tra Niqab e Bikini (meglio un più casto “due pezzi”). Per quel ho potuto vedere (non sovente, solo una èlite frequenta le spiagge straniere) le sciure-bene egiziane (integralmente) di nero vestite, almeno all’apparenza non fanno un plissé, se ne fregano (vada loro un plauso) della poco agghindata peccatrice che le passa accanto.
Finalmente chiusa la lunga (in Egitto un problema del turismo tira un altro) parentesi dedicata a Sergio Romano, eccomi al Cairo.
Dalla cima del Sofitel, l’immensa Cairo
Ma cosa fa chi torna in una città dopo quasi quarant’anni (tanta è stata la mia assenza dal Cairo)? Secondo me quel posto va rivisto (sto inventando il “turismo di ritorno”) perché per sveglio che sia un viaggiatore la patina del tempo offusca i ricordi. E per fortuna (meglio che ti portino in giro gli altri in una megalopoli di 22 milioni di abitanti, di più ce ne sono solo a Città del Messico) la rivisitazione della capitale egiziana è inclusa tra gli happenings del Congresso della stampa turistica mondiale (scusante della mia gita in Egitto). Cosa ho rivisto (e/o visto ex novo)? Gli alberghi, ovviamente (come re Umberto I non negava a nessuno una stretta di mano e un sigaro toscano, parimenti i general managers dei deluxe hotels offrono agli scribi di viaggi, sia pur obtorto collo, spumantino e canapè). E il Sofitel Guezirah lo raccomando pure (svettante sull’isola un tempo riservata ai piaceri british, chi ottiene una camera dal 20° piano in su, gode un panorama davvero piacevole).
Piazza Tahrir: normale, non un aeroporto!
Altrettanto ovviamente (stavolta con esigenze più culturali che mondano-gastriche) si è proceduto alla visita del Museo Egizio (sarebbe d’uopo una spolveratina, poi emigri pure nella nuova sede), della Cittadella (moschea di Mohamed Alì, avo di quel simpatico Re Faruk che sapeva lui come farsela bene) per non parlare delle Piramidi (che i clienti del vittoriano Mena House – i cui addetti ai lavori, per inciso, se la tirano un filino più del lecito – vedono dalla finestra, salvo poi impiegare due ore per arrivare in centro).
Visita/sopralluogo facoltativo (ovviamente compiuto) la citatissima quindi storica piazza Tahrir. Che, contrariamente a quanto garantiscono i mezzi busto tivù nei tiggì, non è mai stata invasa da un milione di dimostranti potendone, al massimo, ospitare 60 mila (parola di un poliziotto intervistato). Un minor rischio, pertanto, di quello sfaccimme che secondo Romano potrebbe scoppiare per le incomprensioni tra ‘Niqab’ e ‘Bikini’.