L’università, lo studium come lo chiamavano i contemporanei, si distingueva in modo radicale dall’altra grande istituzione medievale che fino a quel momento aveva detenuto l’egemonia del sapere: il monastero. Quest’ultimo era infatti un luogo di ritiro, spirituale e fisico, una comunità isolata che trovava la sua collocazione ideale in luoghi sperduti. Le università invece eleggevano come sedi delle loro attività i vivaci centri urbani muniti di vescovo, mercanti, artigiani e masse di abitanti. Però, nelle città ci sono anche le osterie, le bische e le prostitute e, come succede pure oggi, tutto ciò può rivelarsi per dei giovani inesperti, spesso “provinciali” (loro avrebbero detto del contado) fonte di distrazione e di perdizione. Si sa, i giovani fuori dal controllo dei genitori fanno baccano e combinano guai, tanto che alcune città medievali cercano addirittura di boicottare, o per lo meno di battersi contro l’apertura di università nel proprio comune per evitare i disordini associati alla presenza massiccia di giovani indisciplinati provenienti dall’estero, i quali per di più – grazie al loro status chiericale – sfuggivano alla Giustizia civile per essere rimandati solo sotto quella ecclesiastica, vale a dire corporativa.
La parola ai protagonisti
Una vita in viaggio che forse dovremmo lasciare descrivere ai suoi protagonisti nella Confessio Goliae, n. 191, paragrafi n. 2, 3 e 4…
Cum sit enim proprium viro sapienti,
supra petram ponere sedem fundamenti,
stultus ego comparor fluvio labenti,
sub eodem aere numquam permanenti.
Feror ego veluti sine nauta navis,
ut per vias aeris vaga fertur avis;
non me tenent vincula, non me tenet clavis,
quero mei similes et adiungor pravis.
Michi cordis gravitas res videtur gravis,
iocus est amabilis dulciorque favis,
quicquid Venus imperat, labor est suavis,
que numquam in cordibus habitat ignavis.
[Mentre è proprio del saggio porre sulla roccia salde fondamenta io, stolto, mi paragono a un fiume sempre in corsa che non si ferma mai sotto lo stesso cielo. Vado alla deriva come una nave priva del nocchiero, come un uccello che vaga per le vie del cielo; non c’è catena che mi trattenga né chiave che mi rinchiuda, cerco chi mi è simile e unisco così ai pravi. Condurre una vita austera è per me quasi impossibile; io amo infatti il gioco che mi piace di più del miele. Qualunque impresa chieda Venere, che non risiede mai negli animi meschini, è una piacevole fatica].
(17/10/2012)
* In Viaggio con la Storia è una rubrica che racconta il significato del viaggio nei tempi passati, quando muoversi era una necessità e non ancora un piacevole svago. La rubrica è curata da Jennifer Radulovic, Dottoranda di ricerca in Studi Storici e Documentari di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente intorno alla storia militare e a quella dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale.
Sulla strada, volenti o nolenti
Nella maggioranza dei casi, però, l’università era considerata a ragione una risorsa economica. Perché d’altro canto molti giovanotti stranieri avevano avuto ben bisogno di pernottare, mangiare, comprare libri, consumare vino e birra e permettersi vizi! I turisti delle città medievali erano gli studenti universitari: erano anche (e soprattutto) i Clerici vagantes. Al di là dei nomi di spicco individuati tra le righe, i clerici vagantes – spesso confusi con saltimbanchi e giullari – formavano in concreto quella cerchia meno incline allo studio e piuttosto interessata al diletto o alla poesia, al teatro e all’arte che seppe fare dello spostamento, e quindi del viaggio, la propria attività precipua. Cambiare città alla ricerca di nuovi stimoli, di nuove opportunità e di nuove fonti di guadagno, ma più spesso per sfuggire a creditori pericolosi o a fanciulle adirate, significava intraprendere lunghi percorsi che costituivano il fulcro di questo stile di vita.