Un viaggio spirituale nell’anima“ A piedi versi il Jama Masjid”
Poco più avanti, c’è una piccola donna seduta tra sacchi ricolmi e pentole di terracotta: fuma un beedi, che è un piccolo sigaro arrotolato, di larghissimo consumo in India e di minimo costo. Più oltre, un’altra ancora, in un sognante sari azzurro color carta-da-zucchero orlato da una frangia dorata, sembra assopita nella preghiera. Accanto a lei un bambino mi sgrana addosso uno sguardo curioso; gli scivolano dalle labbra i chicchi di riso che meccanicamente continua a prendere con tre dita a punta dalla sua mezza noce di cocco semivuota.
Mi si accosta una bambina dai monili tintinnanti, la tunichetta rosso prugna e gli occhi che cantano in un volto color del rame vecchio. Mi contempla con la meraviglia e il candore violento della sua età. Il suo sguardo che ara il cuore è un sogno. Mi tende mendìca la mano sinistra, aperta e colorata di viola come un lugubre fiore. Con l’altra, considerata la mano pura, mi offre un mazzolino di garofani, ormai secchi. C’è tanta grazia nel suo gesto e nella sua testolina inclinata! Il suo sguardo parla tutte le lingue infantili dell’umanità, perché nello sguardo innanzitutto ha impresse luci di un candore assoluto. Sono gli occhi stessi dei Gandharva, i musici degli dèi, o forse quelli che ebbe in mente Luca della Robbia per i fanciullini di marmo della sua Cantoria immortale.
Il profilo di questa bambina si fa memoria di una vaghezza resa ancora più fresca dal ricordo di quei monili tintinnanti intorno alle sue braccine e di quei garofani gialli, ormai privi di fragranza, offerti con delicatezza ai passanti, dei quali conservo pochi petali sciupati.
Jama Masjid la Moschea
La moschea di Jama Masiid sorge al centro di un vecchio mercato musulmano, nella Old Delhi, gremitissimo e caotico, meglio conosciuto col poetico nome di Chandni Chowk, ossia il Quartiere del chiaro di luna, (chowk significa in verità mercato, mentre chandni è per l’appunto il chiaro di luna).
Il Jama Masjid è la più grande moschea indiana e una delle maggiori della terra. Può accogliere, infatti, più di venticinquemila fedeli nello sconfinato cortile fra i tre superbi portali a ferro di cavallo e la moschea propriamente detta. Al centro di questo cortile è ricavata una vasca di marmo bianco che ingentilisce col suo colore lo spazio e contribuisce a spezzare la monotonia del colore rosso cupo dominante. L’edificio fu completato intorno alla metà del 1600 da Shah Jahan, l’imperatore che fra i Moghul fu quello che maggiormente si distinse per l’infaticabile attività di costruttore. Si tratta di un’opera massiccia di arenaria rossa i cui portali sono collegati da eleganti loggiati in stile indo-moghul sostenuti da agili colonne scanalate con capitelli a forma di loto. L’area centrale è dominata da pinnacoli possenti ai quattro angoli della costruzione e da due altissimi minareti (cioè le torri dalle quali i muezzin chiamano i fedeli alla preghiera). Nel portale a settentrione la moschea accoglie reperti di straordinario valore sacro oltre che storico e una antica versione del Corano redatta su pelle di daino.
Nel cortile della mochea di Jama Masjid dardeggiato dal sole saettano bambini scalzi, mentre si muovono come fantasmi figure femminili interamente ricoperte da neri burqa. I burqa sono quei lunghi soprabiti, generalmente scuri, costituiti da un copricapo con una mantellina che è traforata davanti agli occhi. Quest’ultima ricopre interamente il viso e scende lungo il corpo, fino ai piedi. Altre donne invece, col volto protetto da un chador, il velo scuro che copre loro il volto interamente lasciando scoperte quasi solo le pupille, vagano come lugubri nubi di novembre sotto i portici. Ho osato per qualche istante, credo non visto, scrutare in questi occhi appena nascosti e provare a leggerne il mistero. Vi ho colto sguardi sfuggenti, impauriti e curiosi al tempo stesso, quasi godessero per un secondo del segreto privilegio di essere osservati come per una ricompensa.
Ci allontaniamo in fretta dal tempio di Shri Lakshmi Narayan per cercare protezione alle ondate di calore nella gradevole frescura del nostro autobus. Si prosegue per la visita al Jama Masjid, ovvero la Moschea del Venerdì (masjid significa moschea), non lontana dal santuario di Lakshmi, essa pure sulla sponda sinistra della Yamuna. L’ultimo tratto di strada lo percorriamo a piedi. Attraversiamo un viale alberato e incrociamo un gruppo di persone festanti che fa corona intorno a una bambina addobbata per la propria cerimonia nuziale. Nelle sue grandi pupille è dipinto uno sconfinato stupore. Cammina a piccoli passi, cercando di frequente gli occhi della madre accanto a lei, che le sistema sulla fronte adolescente, lucida di oli, una garza intessuta d’argento. È poco più di una bambina. Avrà forse tredici anni. È impacciata sotto il peso degli abiti da cerimonia e di un incredibile fardello di gioielli. Stupisco all’abbondanza degli ori che ornano soprattutto il suo volto. Dal centro del capo, trattenuta da un fermaglio, le scende sul viso un gioiello di forma allungata (matthika) e una catena doppia d’oro che si congiunge sulla fronte con due pendenti dello stesso metallo cui sono sospesi piccoli ciondoli di filigrana. La pinna sinistra del naso è abbellita da un anellino prezioso collegato a un orecchio con due fili di oro e di perle. L’anellino alla narice si chiama nath ed è il più classico dei gioielli nuziali. Si applica, infatti, per la prima volta proprio il giorno delle nozze per essere portato poi per tutta la vita.
Occorre sapere che questo tipo di decorazione non ha solo finalità ornamentale; essa riflette una precisa simbologia di antica cultura popolare. Gli indiani accomunano, infatti, le narici all’organo sessuale femminile. L’anellino e la catenina, che alle narici è collegata, rappresentano quindi la figurata sottomissione e l’appartenenza allo sposo del sesso, che nella visione maschilista indiana è parte per il tutto della donna.
Prendo i fiori e le stringo nel palmo aperto della mano viola qualche rupia. «Diya», dice con serietà battendosi più volte al petto il minuscolo pugno chiuso con le monete. «Diya», ripete coscienziosamente, quasi a volere che io imprima il suo nome nella mente. E mi sorride. Con occhi sgranati. La tenerezza che leggo nelle sue pupille luminose è come un dono inatteso. Diya è anche il nome dei lumini che si accendono in una foglia di mango accartocciata a forma di conchiglia per onorare Rama o nella speranza che Lakshmi, la dèa del benessere, conceda prosperità.
A Varanasi le diya si abbandonano nella corrente del Gange come sogni affidati all’esaudimento degli dèi. E proprio come una fiammella vagante Diya vaga per le strade, spinta da un vento rapitore, lo stesso che ha nello sguardo. Fluttua ancora davanti ai miei occhi come un batuffolo d’innocenza, senza meta, nel flusso inarrestabile del fiume di un’esistenza senza sponde, senza orizzonti, qui anche più insidioso che altrove… Diya è come l’incertezza e la speranza stemperati in un viso molto piccolo, molto tenero, molto innocente, leggiadra come un pulcino fra le piume di una chioccia. Un viso che è una melodia vivente come quello di una madonna di Murillo.
Molto curato è l’accesso al Jama Masjid il cui portale composito, che si chiama pishtaq, chiude la grande volta ogivale del mihrab, ossia la nicchia della preghiera orientata verso la Mecca. Sul portale, che nell’architettura islamica è uno degli elementi di maggiore spicco, si staglia la mole imponente e perfetta di una cupola a bulbo, come un gigantesco turbante. Essa è realizzata in marmo bianco e posta simmetricamente al centro di altre due di diametro inferiore, esse pure ogivali e dello stesso materiale. L’architettura del Jama Masjid riflette le planimetrie della tradizione araba, con i minareti di quaranta metri di altezza, l’immenso cortile, i portali, le cupole e una decorazione armoniosa che unisce elementi dell’arte moghul e quella indiana. Gli elementi stilistici propri della spiritualità indiana, adottati in un luogo di culto così specifico dell’Islam come questo, sono un esempio della straordinaria capacità di convivenza e di adattamento di culti diversi e la lungimirante attitudine alla tolleranza dei Moghul che la promossero. Purtroppo la linea dell’illuminata apertura mentale originaria si è spesso interrotta nel tempo. Lo testimoniano gli attentati terroristici degli ultimi tempi, quello dell’aprile del 2006 in particolare, che provocò numerosi feriti nel corso di un venerdì di preghiera in mezzo a una folla di almeno mille fedeli.
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