Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Da Milano a Melzo, con Leonardo “poliziotto”

Chiesa di Sant'Andrea a Melzo affreschi abside

Viaggio nelle pieghe più misteriose e sorprendenti delle località lombarde, dal teorema del “Codice da Vinci” che ci porta a Melzo, fino alla verità sull’origine del Gorgonzola e dell’omonima città

Sant'Andrea Chiesa Sant'Andrea
Chiesa Sant’Andrea

Tutto inizia negli anni Ottanta del secolo scorso. I cittadini vogliono salvare dalla demolizione Sant’Andrea, una vecchia chiesetta. Ma alcuni di loro si ritrovano poi a indagare su un “cadavere eccellente” di cinquecento anni fa.
Gli “Amici di Sant’Andrea“, riusciti nel loro intento, promuovono allora un primo programma di restauri. Ma, durante alcuni scavi, vengono trovati un mezzo teschio e una mandibola. Questi vengono posti in una scatola da scarpe su uno scaffale della sacrestia e quasi dimenticati. Passa qualche anno e, via via che il restauro degli affreschi va avanti, appare chiaro che parte del lavoro è opera di un pittore mancino. C’è allora chi si domanda se Leonardo da Vinci, noto mancino, abbia lavorato anche nella piccola chiesetta di Sant’Andrea.

È noto infatti che Leonardo, durante il suo periodo milanese, lavorò nei dintorni di Melzo per la progettazione di chiuse e canali. Ma chi mai avrebbe potuto coinvolgere l’artista in un’opera di modesto interesse, nella campagna milanese? Ecco che a questo punto tornano in primo piano i resti umani trovati anni prima. Per quanto possibile, gli “Amici di Sant’Andrea” intendono accertarne l’identità. Pensano che magari si tratta di un personaggio importante, la cui tomba in quella chiesa può aver giustificato la presenza di Leonardo.

Alla ricerca dell’identità del teschio
Resti del teschio e calco in gesso per procedere alla ricostruzione
Resti del teschio e calco in gesso per procedere alla ricostruzione

Da esami medico-legali, emerge che i resti sono di un uomo dai tratti caucasici, con forte parodontosi. L’analisi degli “anelli” dei denti fissa la morte a circa 33 anni di età; mentre quella al “carbonio 14” fa risalire i resti al periodo tra il 1436 e il 1477.
È successo forse qualcosa di importante a Melzo, nel periodo indicato dal carbonio 14?

Nella Biblioteca Trivulziana viene trovato un documento dove si attesta che nel 1475 il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza dona il contado di Melzo a una certa Lucia Marliano, considerata in quegli anni la sua amante “ufficiale”. Galeazzo Maria viene ucciso soltanto un anno dopo, proprio all’età di 33 anni, nella basilica milanese di Santo Stefano. E se il teschio fosse quello di Galeazzo Maria?

Galeazzo Maria Sforza ucciso. Ma da chi?
A destra, confronto somatico del teschio col presunto ritratto di Galeazzo Maria Sforza. A sinistra, lo stesso confronto col ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta
A destra, confronto somatico del teschio col presunto ritratto di Galeazzo Maria Sforza. A sinistra, lo stesso confronto col ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta

Ma perché seppellire il duca nella tenuta dell’amante e non a Milano? Il comitato di Melzo e gli esperti coinvolti nello studio, hanno ipotizzato che una sepoltura periferica poteva essere giustificata dal desiderio di qualcuno di far cessare piano piano le chiacchiere sull’identità del mandante. Le cronache del tempo raccontano che la salma viene inizialmente portata nel Duomo di Milano e inumata di notte.

A differenza dei tre antenati già nella cripta, non viene imbalsamata. Ma nel 1560 qualcuno riapre la tomba degli Sforza e Galeazzo Maria non c’è più: vengono ritrovati solo i corpi dei tre avi. Il complotto diventa a questo punto più che un’ipotesi. Ma chi può aver voluto la morte del duca? Come in ogni indagine che riguarda un omicidio, occorre innanzitutto fare chiarezza sui rapporti tra la vittima e i parenti. Nel caso del duca ucciso, soprattutto uno: il fratello minore Ludovico, detto “il Moro”.

Gli esami di laboratorio pare conducano allo Sforza
La comparazione tra il profilo della duchessa Bianca Maria Sforza e quello, ricostruito, di suo figlio Galeazzo
La comparazione tra il profilo della duchessa Bianca Maria Sforza e quello, ricostruito, di suo figlio Galeazzo

Altre verifiche mostrano i canini (che crescono tra i sei e i nove anni di età) con dei cosiddetti “stress markers”, che si formano quando la crescita è interrotta da gravi malattie. E Galeazzo Maria aveva sofferto a sette anni di febbri malariche. Il cranio, poi, porta segni di una ferita, guarita, dovuta all’urto di un poliedro. Il duca rimase infatti ferito in gioventù, durante “giochi di guerra”, dal colpo di una mazza da combattimento a sei facce. Ma dov’è la metà sinistra mancante del teschio? Le cronache del tempo riportano il tipo di colpi inferti durante l’agguato mortale: una pugnalata colpì esattamente la parte alta sinistra del cranio.

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Confrontando il teschio con un altro al quale è stata inferta un’analoga ferita, l’osso si frantuma in un modo preciso, in entrambi i casi. Vengono infine ricostruite le sembianze dell’uomo partendo dal suo teschio e il risultato viene confrontato con monete che raffigurano Galeazzo Maria e con un dipinto che rappresenta la madre. Emerge che la postura dei denti (dovuta alla paradontosi) e quindi delle labbra dell’uomo del teschio è molto somigliante a quella della silhouette sulle monete e a un ritratto della madre Bianca Maria Visconti.

Le “indagini” conducono a Melzo
Restauro degli affreschi di Sant’Andrea
Restauro degli affreschi di Sant’Andrea

Il Moro ha ormai campo libero. Ma non sa che qualcuno sta tramando alle sue spalle per far sapere a tutti la verità. Leonardo da Vinci è a Milano e viene coinvolto in questa sorta di contro-complotto: si vuole degnamente onorare la definitiva sepoltura a Melzo del duca ucciso. E indicare tra le righe, qua e là, il mandante dell’assassinio. Da chi viene chiamato Leonardo? Dal restauro degli affreschi di Sant’Andrea, la risposta.

Vengono individuati i santi Girolamo e Caterina d’Alessandria, posti a destra e a sinistra della Madonna con il bambino e san Giovannino. In primo piano, rispetto ai due santi, sono inginocchiati gli offerenti, che rappresentano i committenti degli affreschi. Dai nomi dei santi protettori, inizia l’esame dei personaggi di casa Sforza con i nomi Girolamo e/o Caterina. La ricerca porta a Caterina Sforza (1463-1509) figlia illegittima di Galeazzo Maria e al marito Girolamo Riario (1443-1488) governatore degli Stati Pontifici e nipote di papa Sisto IV.

I due amanti in un affresco
Piatti-di-pompa-Caterina-sforza-Museo-Classense-di-Ravenna
Piatti di pompa Caterina Sforza Museo Classense di Ravenna

Ulteriore conferma del rapporto tra la famiglia Sforza e la chiesa, viene data dalla presenza di un affresco votivo dedicato a “Santa Maria da la Fontana da Caravazo” dove sono rappresentati Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, genitori di Galeazzo Maria e Ludovico.

Anche i simboli presenti sui pilastri dell’abside sono da leggere in relazione ai committenti. Si ritrovano in due “piatti di pompa” (ceramiche maiolicate del XVI secolo) raffiguranti sicuramente Caterina Sforza e Girolamo Riario, conservati al Museo Nazionale Classense di Ravenna.

Dagli “indizi” del Codice Atlantico ai dipinti di Sant’Andrea
Il teschio di Galeazzo Maria Sforza
Il teschio di Galeazzo Maria Sforza

Sul foglio “39 v-e” del Codice Atlantico, conservato alla Biblioteca Ambrosiana, si nota poi un piccolo volto, visto da tre quarti, di una dama con una piccola gibbosità sul naso, come l’aveva Caterina Sforza. Sullo stesso foglio è presente anche uno studio di realizzazione del simbolo della Croce. Il rombo, intercalato per cinque volte, forma un disegno che ha come caratteristica il decentramento tipico della Croce di Sant’Andrea, che non è una regolare “X”: uno sviluppo dell’emblema di Windsor. Manca la documentazione che attesti l’incarico della realizzazione della maggior parte degli affreschi in Sant’Andrea. Ma può essere fatto un nome: Bernardino Zenale.

Partendo da una citazione del Vasari, che lo indica come amico di Leonardo da Vinci durante il suo soggiorno a Milano. Confronti tra opere di sicura attribuzione allo Zenale e gli affreschi della chiesa di Melzo evidenziano molte similitudini stilistiche, ma in qualche scena dipinta in Sant’Andrea, la mano risulta più abile.

Direzione artistica di Leonardo da Vinci
Codice Atlantico
Codice Atlantico

Qualche difficile particolare anatomico da disegnare, qualche ritratto non di maniera, evidenziano che Leonardo sui lavori di Sant’Andrea non ha avuto solo la “direzione artistica”. Talvolta è intervenuto direttamente, con tratti molto simili a quelli di opere a lui sicuramente attribuite. Si può ipotizzare che sia stato proprio Leonardo a segnalare Zenale a Caterina Sforza, per lavorare al ciclo di affreschi della chiesetta. La sua direzione artistica emerge nella scelta dei soggetti e delle scene da rappresentare, con una certa libertà che solo un rapporto di intesa speciale tra committente e artista poteva giustificare.

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Per esempio, c’è l’abbraccio tra un uomo bianco e uno di colore, impensabile nel Rinascimento, inserito forse soltanto perché Gallo Mauro, staffiere di Galeazzo Maria Sforza e noto per il suo incarnato bruno, perse la vita nel tentativo di salvare il padrone.

Le “ricerche” di Caterina e Leonardo da Vinci
Castello sforzesco Stemma centrale
Castello sforzesco Stemma centrale

Caterina Sforza era tornata a Milano nel 1487, dopo un lungo soggiorno nello Stato Pontificio in seguito al suo matrimonio. Ha modo quindi di incontrare a corte Leonardo da Vinci. I due presto diventano amici, sulla base del comune interesse per l’alchimia. Le ricerche del comitato e dei suoi consulenti ipotizzano che Caterina, venuta a conoscenza del luogo di sepoltura del padre, abbia proposto a Leonardo di ideare qualcosa per denunciare con astuzia la congiura dello zio.

Il primo lavoro di Leonardo su questo tema pare costituito dall’emblema sforzesco (o “emblema di Windsor”) dove sono rappresentate le consonanti G e M, riferite sia a “Galeazzo Maria” che a “Galeazzo e Moro”. I due biscioni intrecciati rappresentano la dinastia Visconti-Sforza, mentre le due travi formano la Croce di Sant’Andrea, allusione al nome dell’assassino.

Ludovico, ritenuto il mandante
Sant'Andrea Giovan Andrea Lampugnani, assassino del duca Galeazzo Maria Sforza, rappresentato come Sant'Andrea crocifisso
Giovan Andrea Lampugnani, assassino del duca Galeazzo Maria Sforza, rappresentato come Sant’Andrea crocifisso

Il capo del “commando” che uccide Galeazzo Maria Sforza è Giovan Andrea Lampugnani, che diventa oggetto del tema rievocativo a motivo del nome “Andrea”. Viene rappresentato in un affresco della chiesa come un Sant’Andrea martirizzato. Una crocifissione particolare (la cosiddetta “croce di Sant’Andrea”) scelta anche questa e cui è sicuramente attribuito un significato simbolico. Dell’assassino si parla a Melzo, del mandante a Roma. Papa Sisto IV, zio di Girolamo Riario, commissiona alla bottega del Perugino un dipinto da realizzare in Cappella Sistina. Si tratta de “La fermata di Mosè e circoncisione del suo secondo figlio”: la scena di Mosè fermato dall’arcangelo con la spada, richiama la morte di un condottiero, che è una persona di rilievo, dato che tiene il bastone del comando rivolto a terra; un personaggio importante come era appunto Galeazzo Maria Sforza.

I personaggi ritratti alle sue spalle sono i suoi più stretti familiari. Si possono identificare la figlia Caterina e il marito Girolamo. Dietro di loro, una sorta di baule sul fianco del quale è rappresentata la stessa simbologia che richiama a Sant’Andrea, presente sui piatti di pompa e nella chiesa di Melzo. In groppa al dromedario che trasporta il baule c’è una scimmia, che rappresenta tradizionalmente nelle allegorie il fuorilegge. Ludovico il Moro, in esilio al compiersi del suo complotto, viene in sostanza indicato come il mandante.

Entra in scena Ludovico il Moro
Ritratto di Ludovico il Moro
Ritratto di Ludovico il Moro

Passato alla Storia come un sensibile amante delle arti, una volta salito al potere dopo la morte del fratello, invita a corte addirittura Leonardo da Vinci. Galeazzo Maria è stato invece sempre rappresentato come un uomo impulsivo, crudele e senza scrupoli. Ma per il Moro, signore assoluto di Milano, sarebbe stato molto facile pilotare il venticello della calunnia sul fratello maggiore, che non poteva più difendersi. E arrivare addirittura alla “damnatio memoriae”.
Nella sala del trono del Castello Sforzesco, durante i restauri dei dipinti della volta, è stato scoperto infatti che il monogramma GZ (Galeazzo) era stato ridipinto in LV (Ludovico). L’aggiunta “sesto conte di Milano” era stata lasciata. Ludovico voleva cancellare ogni ricordo del fratello.

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Nell’Archivio di Stato, poi, l’ennesima scoperta: una lettera della madre di Galeazzo Maria e di Ludovico, dove viene descritto un precedente tentativo del Moro di uccidere il fratello maggiore, due anni prima del fatale complotto. Alla morte di Galeazzo Maria, la vedova Bona di Savoia assume la reggenza per conto del giovane Gian Galeazzo. Ma non può impedire il rientro dall’esilio del cognato. Estromessa dal potere Bona di Savoia, Ludovico assume il controllo di Milano, nominalmente come tutore del nipote. Ma Gian Galeazzo muore avvelenato all’età di 25 anni.

Chi è la vera “Dama con l’ermellino”?
Cecilia Gallerani,
Cecilia Gallerani,

Le ricerche svolte per risolvere il mistero del teschio di Melzo contribuiscono forse a chiarire anche uno dei più grandi misteri della Storia dell’Arte: chi è la leonardesca “Dama con l’Ermellino”? Gli studi grafici di Leonardo che riguardano i lavori in Sant’Andrea a Melzo si ripetono, in effetti, in uno dei ritratti vinciani: la “Dama con l’ermellino”, opera realizzata nell’aprile del 1487.

La dama è stata finora identificata con Cecilia Gallerani, amante di Ludovico il Moro. Ma se fosse invece l’amica Caterina Sforza? L’analisi iconografica evidenzia la presenza, sulla spalla destra della dama, di simboli identici a quelli del foglio “39 v-e” e della chiesa di Melzo. Non sarebbe stata riportata nel quadro l’imperfezione del naso studiata sul Codice, perché era prassi nei ritratti ufficiali abbellire il soggetto.

La metafora della Dama con ermellino
Dama con l'ermellino
Dama con l’ermellino

L’ermellino, invece, sarebbe stato inserito come metafora che interpreta il desiderio della committente di ricordare le vicende familiari. L’animale, oltre a essere presente nello stemma dei Lampugnani, famiglia cui apparteneva l’assassino di Galeazzo Maria, ha un altro curioso significato. Il cosiddetto “albero di Sant’Andrea” è una pianta delle ebenacee con foglie ovali di color verde scuro. Tra i suoi antichi sinonimi vi sono “falso loto” ed “ermellino”. Quest’ultimo termine era diffuso soprattutto in Toscana, quindi Leonardo poteva conoscerlo. Secondo questa nuova interpretazione, Caterina Sforza non accarezza l’animale e la mano che lo tocca ha un aspetto scheletrico, in contrasto con la giovane età del soggetto.

Ma l’ermellino potrebbe rappresentare, oltre che Giovan Andrea Lampugnani, anche Ludovico il Moro, che era un membro dell’Ordine dell’Ermellino Bianco.
Bernardo Bellincioni, poeta della corte sforzesca, cita più volte l’ermellino in opere dedicate al Moro ma, parlando di un quadro realizzato da Leonardo che ritrae l’amante del duca Cecilia Gallerani, non inserisce la sua consueta parafrasi dedicata all’animale. L’opera in questione pare quindi essere “La Belle Ferroniere”, conservata al Louvre, e non la “Dama con l’ermellino”. Il rapporto tra Leonardo e Caterina trova altri richiami nella seconda versione della Vergine delle Rocce, ora alla National Gallery di Londra, dove è ancora presente sulla veste la decorazione romboidale che forma la Croce di Sant’Andrea. E questa particolare croce è ricordata anche nella celebre immagine dell’Uomo Vitruviano.

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