“Oggi i menhir sono pietre, ‘falsi’ o ‘finti’ uomini, ma una volta erano uomini veri“. (Fulvio Jesi)
Nella storia, la grande rivoluzione della percezione del paesaggio è avvenuta con la posa del primo oggetto verticale sul territorio naturale. Anche se il primo oggetto situato nel paesaggio umano nasce dall’universo dell’erranza e del nomadismo, con questo avvenimento il camminare abdicò dalla sua unicità come modo di costruire il paesaggio che circondava l’uomo.
Le pietre e l’uomo: primitiva “sinfonia”
I “menhir” appaiono per la prima volta in età neolitica e costituiscono gli oggetti più semplici e più densi di significati di tutta l’età della pietra. Il loro innalzamento rappresenta la prima azione umana di trasformazione fisica del paesaggio. È quasi certo che il fine di queste costruzioni non è stato unico. Essi possono essere, infatti, interpretati come supporti su cui inscrivere figure simboliche, elementi con cui scrivere sul territorio o segnali con cui descriverlo – basti pensare alle “perdas litteradas” (pietre letterate) situate a Laconi, in Sardegna. Possono essere servite per costruire architettonicamente il paesaggio, come una sorta di geometria con cui disegnare figure astratte da contrapporre al caos naturale: il punto (il menhir isolato); la linea (allineamento ritmico di più menhir); la superficie (il “cromlech”, ossia la porzione di spazio recintata da menhir posti in circolo). Ma possono anche essere letti come segnali posti lungo le grandi vie di attraversamento che rivelavano la geografia del luogo. In definitiva, è assai probabile che i menhir funzionassero come un sistema di orientamento territoriale facilmente intellegibile per chi ne conosceva il linguaggio: una sorta di guida scolpita nel paesaggio che conduceva a destinazione il viaggiatore, portandolo da un segnale all’altro lungo, le rotte intercontinentali (un po’ come le tracce iconografiche medievali – chiavi, raffigurazioni di San Pietro, pellegrini – che si possono trovare lungo la Via Francigena e che segnalano al pellegrino, in un linguaggio universale, la retta via).
Obelischi per adorare il Sole
Nella cultura egiziana, invece, la nascita del primo volume nello spazio era rappresentata con il mito del “benben”, la “pietra che per prima emerse dal caos”. Un monolite che rappresenterebbe la pietrificazione verticale del primo raggio solare e che sarebbe collegato con la simbologia dei menhir, degli obelischi e del “ka”: il simbolo della “eterna erranza”, un altro concetto fondamentale per la comprensione dello spazio antico. Il ka è composto da due braccia alzate verso il cielo e rappresenta probabilmente l’atto della trasmissione dell’energia divina e dell’adorazione del sole. Questo sembra essere un simbolo universale dell’antichità umana; simili rappresentazioni sono state trovate sparse in tutto il mondo, dalla Sardegna al Mali. Quello del ka è uno dei simboli più antichi dell’umanità ed essendo frequente in numerose civiltà molto distanti tra loro, potrebbe far supporre che, insieme al menhir (anch’esso ricorrente in quasi tutte le civiltà: dai popoli della Gran Bretagna a quelli della Mongolia) fosse comprensibile dalle moltitudini di genti che si spostavano a piedi attraverso i continenti: un simbolo per gli erranti del neolitico.
Menhir: monumenti polifunzionali
L’impossibilità di trasportare e di innalzare i menhir per una sola tribù, anche se numerosa (è stato calcolato che per innalzare il più grande monolite di Carnac, il menhir Locmariaquer, alto ventitre metri e pesante trecento tonnellate, sia stata necessaria una forza-lavoro di almeno tremila persone) porta a ipotizzare che la localizzazione dei menhir avveniva in territori non appartenenti a un villaggio particolare, bensì in territori neutri, in cui più popolazioni si potessero riconoscere; fatto che potrebbe spiegare anche l’uso, in uno stesso sito, di pietre provenienti da regioni a volte distanti centinaia di chilometri. Ancora oggi in Puglia alcuni menhir si trovano lungo i confini che separano diversi territori.
Le zone su cui si costruivano le opere megalitiche erano dunque una sorta di santuario in cui le popolazioni dei dintorni si spostavano in occasione delle festività, ma anche luoghi di sosta lungo le grandi vie di transito; luoghi che avevano la funzione delle moderne stazioni di servizio delle autostrade. Lungo il viaggio la presenza dei menhir attirava l’attenzione del viandante, per comunicare la presenza di fatti singolari e informazioni relative agli altri territori intorno, informazioni utili al proseguimento del viaggio come: cambiamenti di direzione, punti di passaggio, bivi, valichi, pericoli. Ma forse i menhir indicavano anche luoghi dove si svolgevano celebrazioni rituali legate all’erranza, svolgendo più o meno il ruolo dei “corroboree” degli aborigeni australiani; siti sacri dove avvenivano rituali e scambi per formalizzare rapporti fra tribù di differenti territori. Il più conosciuto di tutti è l’icona del “Paese bruciato dal sole”, Uluru-Ayer’s Rock.
Segnali della prima civiltà: quella del “cammino”
I grandi allineamenti di megaliti – da quello di Carnac in Bretagna (il più grande allineamento di menhir esistente al mondo) al tempio di Amon a Karnak in Egitto – non erano spazi pensati per assistere a funzioni religiose, ma erano spazi da percorrere, costruiti per le iniziazioni che rendevano sacro e simbolico l’eterno errare. Prima della trasformazione fisica della crosta terrestre cominciata con i menhir, il territorio ha subito una trasformazione culturale fondata sul camminare, un’azione che si svolse sulla sola superficie del pianeta senza violarne la materia. Quello del percorso è dunque uno spazio anteriore allo spazio architettonico; uno spazio immateriale con significati simbolico-religiosi. Per migliaia di anni, quando ancora era impensabile la costruzione fisica di un luogo simbolico, il percorrere lo spazio ha rappresentato l’unico mezzo estetico attraverso il quale era possibile abitare il mondo.