Le “riduzioni” gesuitiche boliviane
Lontana dalle cime delle Ande, si estende la Bolivia della Selva. Qui strade polverose portano fin dentro il “cuore verde” del Paese: la Provincia di Santa Cruz de la Sierra. Nel Seicento, assieme ai territori dell’odierno Paraguay, formava la Provincia di “Paraguaria”. La zona era un passaggio obbligato per le carovane provenienti dal Perù e da Potosì, ma gli assalti degli indios chiriguanos resero necessaria la ricerca di nuovi sentieri e di nuove strategie per rapportarsi con i nativi.
Il viceré spagnolo decide di puntare più sul Vangelo che sulla spada: nel 1691, padre Arce è il primo missionario gesuita a solcare la rossa terra di Bolivia. Rimane conquistato dalla bellezza selvaggia di questi territori. Cieli immensi, solcati dal volo dei pappagalli; magnifiche orchidee a cui basta la carezza del vento per vivere. In simbiosi con questa natura rigogliosa vivono uomini di stirpe Tupi-Guaranì, soprannominati “Chiquitos” (“piccolini”). Ad essere piccole, in realtà, sono solo le entrate delle loro capanne: uno stratagemma per scoraggiare i giaguari.
Conducono una vita dura, esposta alle malattie e al continuo pericolo. Ispirato dall’ideale evangelico della “Terra senza Male”, Padre Arce fonda qui la sua prima missione. Un luogo in cui i nativi potevano ricevere assistenza medica e spirituale, ma a condizione che abbandonassero le loro capanne disperse nella selva per radunarsi (o “ridursi”, nello spagnolo dell’epoca) e formare una comunità. Nascono così le “riduzioni” gesuitiche della Chiquitanía. Qui si abbina l’evangelizzazione all’insegnamento dell’agricoltura, dell’artigianato e della musica, per cui i nativi dimostrano un talento eccezionale. La comunità era retta dal “cabildo”, il consiglio dei notabili indigeni, in cui il sacerdote rivestiva il ruolo di consigliere. Ma c’è qualcosa che manca: per agevolare le conversioni, la chiesa dev’essere specchio della magnificenza del paradiso.
Detto e fatto. Nel 1730, giunge in Chiquitanía il gesuita e architetto svizzero Schmidt. Nel giro di pochi anni, all’interno della selva spuntano chiesette candide riccamente decorate con motivi vegetali in cui ricorre il fiore di “mburucujà”, simbolo di Cristo. La forma ricorda curiosamente gli chalet alpini della patria lontana.
Dopo San Javier sorgono San Rafael, Concepción, San Ignacio, San Miguel, Santa Ana… le riduzioni crescono. E si arricchiscono. Guadagnano speciali privilegi dal re di Spagna, tra cui la libertà di armarsi per difendersi dalle incursioni dei trafficanti di schiavi. Cominciano a far paura agli stessi poteri che hanno contribuito alla loro nascita e che ora vedono il fenomeno sfuggire loro di mano. Nel 1777, il sogno della “Terra senza Male” s’infrange: il Papa ordina lo scioglimento dell’ordine gesuita.
I missionari della Chiquitanía devono tornare a casa. Seguono secoli di abbandono. Le riduzioni vengono fagocitate dalla selva. Finché, nel 1972, un altro gesuita diventa il protagonista della loro rinascita. Si chiama Hans Roth, anche lui svizzero e architetto. Il lavoro di restauro ha riportato questi gioielli architettonici al loro splendore e oggi sono parte del patrimonio Unesco.
Le chiese sono ancora il centro della vita dei villaggi, che é rimasta in buona parte immutata, anche se le motociclette di fabbricazione cinese hanno sostituito i muli. L’accoglienza alberghiera è impeccabile, con tanto di internet e piscina. Ma nelle locande si serve ancora brodo di gallina e coccodrillo arrosto.