Una canzone resa celebre dalla mitica interpretazione di Jorge Negrete nei primi anni Quaranta, ben più nota quella recente del divo Julio Iglesias: “Ay Jalisco no te rajes (non fare il bullo, il gradasso)”. Laddove Jalisco è uno stato del Messico occidentale di cui Guadalajara è la capitale, nonché la “novia” (fidanzata).
E oltre che novia e capoluogo del Jalisco, Guadalajara è antagonista di Città del Messico, in una sorta di derby avente in palio le tradizioni, l’immagine, i costumi di un Paese che vive di folclore, di colori e di canzoni.
Con Città del Messico, derby continuo
Il risultato? Se si parla di maggior notorietà, Ciudad de Mexico la vince, fosse solo per il numero di abitanti, ventidue (dicono ventiquattro) milioni; tanta gente da farne uno dei più grandi agglomerati umani del mondo (su un’area urbana grande quanto metà del Belgio). Ma se si parla di abitudini popolari e calore umano, di musica e canti, il match si presenta più aperto. Perché Guadalajara (“solo” quattro milioni i suoi abitanti) possiede le carte vincenti, le componenti tipiche e più valide che costituiscono l’immagine del Messico nel mondo: i Mariachis, il Tequila e il Charro (il cow boy messicano).
Meno storica dell’antagonista – Città del Messico fu capitale dell’impero Azteca con il nome di Tenochtitlàn – Guadalajara, “Perla dell’Occidente”, deve agli Spagnoli la nascita e il nome (dato dagli Arabi all’omonima città spagnola, oggi capitale di provincia della Castilla-La Mancha: Wad Al-Hid-Jara, ovvero “fiume che scorre in mezzo alle pietre”).
Città d’altura, col sigillo imperiale di Carlo V
La fondazione del centro messicano risale al 14 febbraio 1542, ad opera di Cristòbal de Oñate per ordine del Conquistador Nuño de Guzmàn (nato nella Guadalajara manchega) anche se da più di un decennio insediamenti dello stesso nome erano stati fondati eppoi abbandonati in altri punti dell’attuale stato di Jalisco.
Finalmente, nella valle del fiume Atemajac a più di mille e cinquecento metri di altitudine, l’attuale Guadalajara – non senza imperiale autorizzazione di Carlo V – trovò la sua giusta e definitiva collocazione per divenire poco dopo, durante il cosiddetto periodo Coloniale, capoluogo di un ampio territorio chiamato Nueva Galicia. E più di Città del Messico, la rivale “tapatìa” (aggettivo di tutto ciò che si riferisce allo stato di Jalisco; e Jarabe Tapatìo, in inglese Mexican Hat Dance – resa celebre in cartoni animati di Walt Disney – è dal 1924 la danza nazionale messicana) ha mantenuto nei secoli una sorta di legame con la Spagna, accogliendone una costante e nutrita immigrazione (il 46% della popolazione è oggi composto da “criollos” discendenti da spagnoli o recenti immigrati, il 40% da “mestizos”, meticci e solo il 14% da Indios amerindi).
Il Palazzo della Cultura, patrimonio Unesco
Nel Messico moderno Guadalajara ha vissuto una storia sonnolenta, da provinciale, fino alla recente espansione industriale che le ha conferito l’appellativo di Silicon Valley messicana. Ne consegue un contesto monumentale cittadino che merita una visita, peraltro non esaltante, se non abbinata alla conoscenza del folclore, della cultura e delle altre peculiarità regionali.
I più importanti monumenti cittadini sono concentrati nell’area compresa tra la Plaza Tapatìa e la cattedrale, datata 1661 ma più volte riveduta e corretta (l’architettura religiosa propone anche il semplice ma gradevole stile coloniale di San Agustìn e il barocco messicano di Nuestra Señora de Guadalupe). Attira forse più interesse della cattedrale l’adiacente, “churrigueresco” Palazzo del Governo, la cui facciata barocca si affaccia sulla Plaza de Armas arricchita da un bel gazebo, giardino fiorito, forgiate panchine e dal viavai delle “calandrias”, tipiche carrozzelle dipinte di bianco.
Dietro la cattedrale, la spaziosa Plaza de la Liberaciòn è decorata dalla facciata neoclassica del Teatro Degollado (1855). Percorsa la pedonale, tipica la calle Morelos, la vista spazia sulla Plaza Tapatìa: sul fondo il severo edificio dell’Instituto Cultural Cabañas, la maggior attrazione cittadina. Patrimonio dell’Umanità, nel 1991 sede della prima “Cumbre Iberoamericana”, l’ex Ospizio, Casa de la Misericordia, non è tanto importante per le sue dimensioni (la superficie di venticinquemila metri quadrati ne fa il più grande edificio civile dell’America Latina) quanto per la presenza di cinquantasette “murales” del grande artista jaliscense Josè Clemente Orozco (1883- 1949).
Murales contestatori, pro Indios e Campesinos
Se si parla di scherzi del destino è indubitabile che al momento di pagarne la costruzione (iniziata nel 1801) il ricco vescovo che donò l’Ospizio, Don Juan Cruz Ruiz de Cabañas y Crespo, mai avrebbe pensato che vi sarebbero state dipinte cinquantasette opere che più anticlericali (e antispagnole) non si può.
Orozco forma, con Diego Rivera e Josè Siqueiros, una trinità di artisti messicani che nella prima metà del Novecento eccelse nella pittura dei murales.
Opere impegnate e impregnate degli ideali della Rivoluzione del 1910, su tutto il pensiero libertario antireligioso, la strenua difesa degli Indios, dei campesinos, dei più deboli.
Al contrario del Mural sullo scalone del Palacio del Gobierno, apertamente dipinto contro le violenze delle dittature (tra svastiche e fasci è riconoscibile Benito Mussolini) i cinquantasette murales di Orozco nell’Instituto Cabañas (inquietante il capolavoro, l’Uomo in Fiamme, nella cupola della cappella) spaziano da scene di vita pre-ispanica a bigie figure di Conquistadores (non manca un perfido Cortès) a crudeli rappresentazioni della lotta per l’indipendenza. Domina, nelle opere di Orozco, un esasperato anticlericalismo, accentuato dal fatto che agli inizi del secolo scorso Guadalajara e il Jalisco furono teatro di sanguinosi scontri tra lo Stato laico e i Cristeros, una sorta di associazione di fondamentalisti cattolici sconfitti a metà anni Trenta.
Artigianato, gastronomia, calcio e musica. A Guadalajara
Più prosaici, poco distanti dall’Instituto Cabañas, il Mercado Libertad o di San Juan de Dios e la Plaza de los Mariachis. Sui tre piani del Mercado, il più tipico di Guadalajara, si acquista buon artigianato, indumenti (“sarapes”, i tipici “ponchos” multicolori , scialli e “morrales”, mantelli) e si assaggia la gastronomia tapatìa in una delle fondas o Birrias; quest’ultime nulla hanno a che vedere con la birra: si tratta di ristorantini in cui è servita, ghiottoneria locale, la capra, il “chivo”.
E Chivas sono chiamati i giocatori della amata squadra di Calcio (fondata nel 1906 da un commerciante belga).
A Guadalajara sono presenti altre due squadre, ma la grande “aficiòn” è rivolta alle Caprette, undici volte campioni del Messico e acerrimi avversari dell’America, la più forte squadra della capitale.
Nella Plaza de los Mariachis (come a Città del Messico nella piazza Garibaldi) ecco esibirsi i “valientes” suonatori, una delle tre citate e vantate Glorie (con la Charreria e il Tequila) del Jalisco e della sua novia Guadalajara. Minibande di musicisti che con svariati strumenti (violino, chitarra, contrabbasso, tromba, arpa e “vihuelas”, una chitarra con cinque corde) visitano l’infinito mondo della canzone messicana (amori, tradimenti, machismo, morte, politica, gelosia, rivoluzioni; e non mancano gli animali, vedi la rivoluzionaria Cucaracha).
Mariachis dal “ricco” sombrero
Le loro vicende risalgono a metà del XIX secolo, nel sud del Jalisco, ma il nome Mariachi è tuttora materia di studio: c’è chi assicura che derivi dal francese Marriage (perchè richiesti alle feste nuziali); secondo altri è dovuto alla loro presenza a una antica Festa in onore e della Virgen Maria H (Mariaa hàce). Dei Mariachis è almeno nota l’origine del vestito, simile a quella del Carro: tante, vistose, borchie d’argento su giubbetto e pantaloni, immenso e decoratissimo sombrero ricco di fregi e lustrini. Immagine visiva e musicale del Messico (divenuti popolari grazie al cine e alle esibizioni con i grandi cantanti Jorge Negrete e Pedro Infante) i Mariachis sono presenti nelle manifestazioni ufficiali nazionali (e non può mancare, in settembre, un loro Festival, ovviamente a Guadalajara). Chi non si accontenta di ascoltare i (quasi sempre) baffuti cantori di Cielito Lindo nella loro Plaza, può continuare le audizioni in alcuni locali cittadini: musica a gogò dal pomeriggio a notte fonda alla Casa del Mariachi (ricca la proposta di cocktails, uno si chiama “Orgasmo”) più casereccio e familiare il Mexicanisimo, con fanciulli dormienti tra virtuosismi di guitarrones e stacchi di tromba.
Tra un Margarita e l’altro, tutti ad ammirare i Charros
Diretti verso Tlaquepaque, si esce dal centro storico apprezzando belle magioni coloniali lungo la calle Hidalgo, molti sono anche gli edifici Belle Epoque, stile francese che tanto piaceva al presidente dittatore Porfirio Diaz (deposto dalla rivoluzione del 1910). Un tempo villaggio isolato, oggi parte integrante di Guadalajara, Tlaquepaque costituisce lo spazio di ricreazione, la zona del tempo libero e dello shopping dei Jaliscenes. E dopo aver ammirato artigianato e moda nelle vetrine della pedonale Avenida Independencia, niente di meglio che andare ad ascoltare i Mariachis sorbendo una Margarita (un terzo ciascuno di Tequila, Lime e Triple Sec, ghiaccio se chiesto on the rocks e, adesso di moda, sale sul bordo del bicchiere).
Se poi è domenica (o il 14 settembre, Giornata Nazionale del Charro, o il 12 ottobre, Virgen de Guadalupe, patrona del Messico e festa nazionale) tutti a un Lienzo (arena circolare) per assistere a una Charreada. Per chiarezza, Charro è il cavaliere o cow boy, Charreada è la prova di capacità tipo Rodeo e Charrerìa è il mondo, la vita, il “deporte nacional”, quella che in inglese si definisce la “way of life” del carro, secondo regole e dettami risalenti alla fondazione, 1921, della Asociaciòn Nacional de Charros.
Fascino e colori delle Charreadas
Non è azzardato commentare che questa sorta di sport, spettacolo di agilità, ardimento e bravura, nacque con l’arrivo dei Conquistadores, che importarono dalla Spagna il cavallo e i bovini. Ne conseguì la vita nel Rancho, l’allevamento (incluso quello del Toro Bravo, nel Messico la corrida è popolarissima e la capitale possiede la più grande Plaza de Toros del mondo, ottantamila posti) e queste Charreadas scandite dalle “Suertes”, nove prove comprendenti la doma, l’uso del lazo, la monta, la resistenza nel cavalcare (beninteso senza redini) focosi cavalli incrociati tra il “quarter” dei Gringos e il locale “criollo”, nervose Yeguas e financo scalpitanti torelli.
Uno spettacolo forse già visto nei film di James Dean o Clint Eastwood, ma reso più caliente e intrigante – nel Messico – da colori, partecipazione e soprattutto dalle eleganti divise dei nostri eroi (magnificate: “Es su orgullo su traje de Charro”, nel già menzionato “Jalisco no te Rajes”).
Tequila, gloria nazionale
Per saperne di più sul Tequila basta recarsi – una settantina di chilometri a nordovest da Guadalajara – nell’omonima località, ai piedi dell’omonimo vulcano, terzo giacimento al mondo di Ossidiana, da cui il nome nell’antica lingua indigena: “tlequel” (pietra) e “ilar” (che taglia). Qui giunti, la migliore lezione scientifica sulla “macha” bevanda amata da Mariachis e Charros è impartita nell’azienda fondata nel 1765 da Josè Antonio Cuervo (e tuttora in mano ai suoi discendenti, mentre la rivale Sauza è ormai passata in mani Yanquìs, pronunciato dalla guida come se volesse dire Gringos). Chi si accontenta di conoscere soltanto le origini leggendarie della decisa bevanda alcolica (e si tralascino quelle religiose che lo considerano un regalo della dea Mayahuel) è presto accontentato: durante un temporale, un fulmine spaccò un’agave la cui polpa macerata fermentò, producendo una sorta di vino che non dispiacque a una curiosa indigena (dopodiché, giunti i Conquistadores, il nettare Indio opportunamente alambiccato divenne l’odierno Tequila).
Più scientificamente, il distillato che più messicano non si può, “nasce” dall’agave (pianta delle Amarillidi, in latino agave, dal greco agauè di cui all’aggettivo agauòs, meraviglioso). Ma tra le tante (più di duecento) specie di agavi, grazie alla “scoperta” di un tedesco (!), Herr Weber, soltanto una – forse per questo è divenuta Patrimonio dell’Umanità – produce il Tequila: la agave “azul, blu, tequilana”.
Dall’Agave blu, la bevanda migliore
L’iter che dalla pianta (bellissimi i panorami nelle campagne del Jalisco, si ammirano distese di verde bigio geometricamente ordinato) conduce alla mescita sul banco di un bar è complicato non meno che curioso. Trascorsi sette anni nel terreno, la “cabeza” dell’agave, detta anche “piña” (al termine del trattamento risulterà infatti identica a un’enorme ananas, in spagnolo piña) viene estratta e sottoposta a una pulitura (jimar) compiuta con un affilato strumento, la “coa”, tagliante le dure, spinose foglie. L’agave viene trasportata alla distilleria per essere triturata, macerata, bollita (per trentotto ore) dopodiché il liquido ricavato passa alla distillazione e infine all’imbottigliamento (mentre il Tequila “nobile” va a riposare nelle “barricas”, botticelle, per uscirne opportunamente abbronzato).
Poiché qualche numero non guasta mai, va elencato che un’agave, trasportato alla distilleria, pesa tra quaranta e sessanta chili e che da ogni sette chili di agave si ricava un chilo di liquore, talché ciascuna pianta produce mediamente una decina di litri di Tequila. Mica male.
C’è anche il Tequila col “verme”!
La lezione impartita alla Cuervo (che tratta duecentocinquanta tonnellate al giorno di agavi, producendo venticinquemila bottiglie esportate in cento Paesi) è completata dalla precisazione che il vero Tequila deve essere “100% agave azul”, che esistono tre classificazioni di invecchiamento (Blanco, Reposado, Añejo) e si conclude con la biblica sentenza che di Tequila “ne esiste uno solo” (guai pertanto a chi lo confonde con il Mezcal, distillato del “pulque” mosto dell’agave Manso o dell’Espadin, ma vanno bene anche altre agavi meno nobili). Una vera bottiglia di Tequila, ad esempio, si rifiuterebbe di contenere il “Gusano”, verme (una sorta di larva) imbottigliato con il Mezcal secondo tradizione messicana (beninteso, l’animaletto, bianco o rosso, meglio il primo, allevato contestualmente all’agave, possiede decise doti afrodisiache).
Il sopralluogo nel Jalisco prosegue: si va a conoscere la tapatìa Costalegre, quasi trecento chilometri di oceano Pacifico, da Barra de Navidad alla celebre Puerto Vallarta, da poco turisticizzati per le balneazioni dei vicini Yanquis e dei cittadini di Guadalajara. Si tratta di una costa frastagliata, resa inquietante dalle lunghe onde del più grande oceano del mondo che hanno modellato maestose spiagge e misteriose insenature. Ma questa – dopo aver commentato Mariachis, Charros e Tequila -, direbbe Kipling, è un’altra storia.
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