“Madrid Madrid Madrid, pedazo de la España en que nacì” recita il refrain di una canzone (un Chotis, musica-danza, dal tedesco Schottisch-scozzese, di gran moda nel XIX secolo e ballo tipico nelle Verbenas, feste madrilene) dedicata alla capitale spagnola dal grande compositore Agustìn Lara.
Curiosità; il celebre musicista messicano (autore, tra tanti altri motivi di successo, di “Noche de Ronda”, “Maria Bonita”, “Solamente una Vez”) soprannominato El Flaco de Oro, perché bruttino ma mitico Tombeur de Femmes (vedi il suo flirt matrimoniale con l’attrice Maria Felix, la Señora, per molti la più “bella donna del mondo”) stese le note di “Madrid Madrid Madrid” senza esservi mai stato.
Ma se è per questo compose anche la celeberrima Granada senza avervi posto piede; ciò nonostante le due città spagnole gli dedicarono altrettanti monumenti. Ciò premesso – e considerato che posso vantare più di mezzo secolo di assai frequenti viaggi, visite e soggiorni nella città tanto amata da Alessandro Dumas (sognante di “diventare cittadino spagnolo e scegliere la residenza a Madrid”) – dalla capitale spagnola non pretendo un monumento ma almeno l’autorizzazione a poterla raccontare, questo sì. Questa mia Ode a Madrid celebrante l’abbondante mezzo secolo di convivenza tra me e la Capital de las Capitales (in Spagna un capoluogo di provincia è detto Capital) sarà composta soltanto da dissennati non meno che disordinati ricordi ed esperienze, buttati lì, raccontati alla rinfusa.
Antico villaggio in riva al Manzanares
Prima che arrivassi io, Madrid poteva già vantare una certa storia, gloriosa e intrigante il giusto, ma onestamente non antichissima e millenaria come le altre capitali europee oggi sue concorrenti nell’attirare turisti Low e High Cost (questi ultimi sempre più rari, ci stiamo globalizzando, evviva, solo che, purtroppo, ci ammassiamo sempre più Low, in basso, ma va anche bene così). Una storia non remota, perché Madrid non è antica, nulla ha a che fare con l’Impero romano, vedi Parigi-Lutetia, Londra-Londinium, Vienna-Vindobona. Mentre nella Hispania di Roma dettavano legge Tarraco-Tarragona, Augusta Emerita-Merida, Hispalis-Siviglia, sui terreni oggi resi importanti dalla seicentesca Plaza Mayor e dallo stadio Santiago Bernabeu, spuntava soltanto qualche albero di “madroño” (corbezzolo) con tanto di orso su due zampe che ne gustava i frutti. Narrano infatti i dèpliant turistici e le guide dei pullman (in attesa di portarti a far shopping nei magazzini, dove hanno la loro convenienza) che i primi vagiti di Madrid risalgono soltanto a circa un millennio fa e citano un anonimo villaggio arabo di nome Mayrit o Magerit o Matrit.
Padrona del mondo
Come ogni importante “self made man” made in Usa, Madrid si è pertanto “fatta dal nulla” conquistando in breve tempo fortuna e successo. Perché solo nel 1561 – ponendo termine a quella strana abitudine medievale della monarchia spagnola, consistente nel far girovagare la Corte di città in città – Madrid divenne capitale della Spagna per volere di Filippo II, il Rey Prudente. Prudente ma anche triste e bigottissimo: è infatti quel monarca, sempre dipinto con un bel vestito nero lutto, che nell’Escorial si fece fare la camera da letto con un buco, attraverso il quale assistere a tutte le quotidiane funzioni sacre celebrate nella chiesa del bellissimo non meno che lugubre mega-monastero. Ma proprio in quegli anni cominciavano ad arrivare dall’America gli immensi tesori spediti dai Conquistadores (ecco perché in Spagna si dice “vale un Potosì” e in Italia “vale un Perù”; ma sempre di oro e argento estratti dagli Indigenas scavanti nelle Ande, si parla). E fu così che Madrid da capitale di un regno europeo si ritrovò d’amblè “Caput” di quell’immenso impero sul quale (chiedo scusa ma questa citazione non finisce di far colpo sul lettore) “non tramontava mai il sole”. Un sole che scompariva nelle Filippine dopo essere sorto in Italia, stivale quasi interamente – salvo Venezia e il Papato – posseduto da Madrid, compreso il Milanesado, la manzoniana, nostrana Lombardia dei Tercios, ahinoi colonia spagnola come Cile, Messico, Guatemala eccetera, eccetera.
Le tracce architettoniche dei secoli
Madrid, dunque, metropoli imperiale. Come Londra e Parigi. Ma per favore niente paragoni, chiose su “quale città è più bella”, si eviti di stilare classifiche (mai farle! nel turismo non devono esistere ordini d’arrivo, punteggi tra posti e luoghi come se si parlasse della Spal o dell’Atalanta!). Se però dovessi emettere giudizi (ma, ripeto, mai classifiche!) commenterei che Londra esibisce i frutti delle grandi conquiste economiche e sociali conseguite dalle genti anglosassoni nel XIX e XX secolo; Parigi custodisce valori e bellezze imperial-napoleoniche nonché il pensiero illuminista del XVIII secolo, mentre Madrid (oltre a un innegabile primato artistico: tre musei, Prado, Reina Sofia e Thyssen a pochi metri di distanza) può vantare il grande momento storico vissuto nel XVI e XVII secolo, all’insegna di un predominio politico e culturale non solo europeo. A tale proposito è forse utile ricordare che oggidì dei quattrocentocinquanta milioni di persone parlanti lo spagnolo nel mondo, solo quaranta milioni vivono nel vecchio continente, talché Madrid (che nelle sue strade profuma più di Montevideo o Buenos Aires che di Zurigo o Vienna) può essere considerata la meno europea delle capitali europee.
Due secoli, il Cinquecento e il Seicento (quest’ultimo addirittura “de Oro”) oggi rivivibili nella “Madrid de Los Austrias”. Composta, oltre alla oggidì ospitalissima Plaza Mayor (ricordo la Casa de la Panaderia in condizioni a dir poco trascurate, ma si parla di quando per andare in Spagna occorreva il “certificato di buon cattolico” redatto dal tuo parroco) dal palazzo dell’attuale Ministero degli Esteri e dagli edifici della Plaza de la Villa (Ayuntaminento) e dal Palacio de Uceda (oggi Capitania General). Ma soprattutto vanno visitati i due conventi (reali: a quei tempi per le figlie del re non sposate veniva costruito un ricco monastero e lì entravano senza più uscirne) de la Encarnaciòn e de las Descalzas (che personalmente ritengo una preziosità tanto interessante quanto poco divulgata sia dalle guide scritte che da quelle in carne e ossa, forse soltanto perché gli orari di visita sono scarni e va sempre prevista una certa attesa).
Nell’incanto del Prado
La Madrid del Settecento (si estinguono gli Asburgo, arrivano i Borboni) si identifica in due grandi monumenti, il Palazzo Reale e il Prado; e nella Puerta de Alcalà, uno dei principali simboli cittadini (con la vicina fontana della Cibeles e il già citato orso alle prese con la pianta di corbezzolo). Il neoclassico Palazzo della Plaza de Oriente è da qualche lustro assai appetito dai visitatori dopo un oblio denotante l’allora scarso interesse nei confronti del “turismo di città”. Accadeva infatti che il ministro “franquista” del Turismo, Manuel Fraga Iribarne, pensasse più alle spiagge di massa che ai monumenti (come peraltro fanno tutti gli addetti ai lavori turistici: i soldi si fanno con i tanti beceri della tintarella e i “villaggisti all inclusive del ballo del quaquà”, mica con la scarna “nicchia” dei viaggi intelligenti).
Un Palazzo Reale diventato di moda (i mezzibusto dei tiggì italiani direbbero “preso d’assalto”) soprattutto perché, oltre a essere stato spolverato e ripittato (come detto, “ai miei tempi” appariva un filino in abbandono) re Juan Carlos – più mondano del Caudillo – vi organizza frequenti ricevimenti e festeggiamenti, talché il turista va a vederlo non tanto per conoscere i lussuosi appartamenti di Carlos III, il re architetto, quanto per ammirare il Salone del Trono, mèta finale dell’ascesa sociale della giornalista Letizia, divenuta principessa mediante la love story con Felipe. Potere del gossip. Quanto al Prado, credo che per dimostrarne l’assoluto valore universale di quanto possiede ed esibisce, basti citare il commento espresso da Manuel Azaña, presidente della seconda Repubblica Spagnola (1936-1939): “Il Prado vale la Repubblica e la Monarchia messe assieme”. Aveva proprio ragione. Intriganti, poi, durante la Guerra Civile, le non tranquille vicende dei suoi capolavori (furono nottetempo trasferiti con alcuni camion da Madrid a Valencia, capitale antifranchista, per finire a Ginevra e di lì tornare a Madrid a guerra ultimata: una storia emozionante, sull’argomento sono stati scritti libri e girato un film).
Dumas e De Amicis tra gli estimatori
Si giunge alla Madrid del XIX secolo, cominciato con Goya (da non perdere le sue e tante altre belle opere d’arte alla Real Accademia de Bellas Artes de San Fernando, male segnalata nei “giri della città”, notevole pure il palazzo che la ospita) e la contestuale Guerra dell’Indipendenza contro quel rompiballe di Napoleone che agli Spagnoli impose come re suo fratello Giuseppe I, un “povercrist” vocato ad alzare il gomito, talché il popolino non ci mise molto a battezzarlo “Pepe Botella”. Archiviati Goya e Napoleone, la Madrid della seconda metà dell’Ottocento non solo affascinò il già citato Dumas, ma intrigò pure il De Amicis che in un bel libro, diario di viaggio pubblicato nel 1873, definì la Puerta del Sol “un colpo d’occhio stupendo” (forse perchè abituato a vivere nella provinciale Torino, silenziosa capitale dei pedemontani “bùgia nejn”). Se per Madrid quest’ultimo periodo storico non fu artisticamente rilevante, lo fu invece sotto il profilo culturale e sociale, perché vide la nascita del cittadino madrileno doc: “castizo”. Fu allora che la città definita da Machado “Frangiflutti di tutte le Spagne” cominciò ad accogliere e ad assimilare gente, personaggi e modi di vivere che il geniale David Trueba (scrittore, regista di “Soldati di Salamina”) ben descrisse durante una deliziosa conferenza all’Instituto Cervantes di Milano. Una piacevole chiacchierata che tento di riassumere.
I “racconti” di Trueba
Trueba cominciò descrivendo la Madrid “porto di mare” accogliente chi viene dal resto della Spagna a cercar fortuna (gli eredi dei “maletillas” d’antan, giovinotti che con un solo fagotto sulle spalle tentavano la “suerte taurina” girando per le Plazas de Toros). E citò un noto personaggio da poco scomparso, un “poderoso” arricchitosi come i nostri palazzinari romani con il “ladrillo” (mattone). Simpatica la sua vicenda. Voglioso di comprare un terreno messo in vendita dall’Esercito, il nostro si informa e scopre che l’ufficiale incaricato della vendita ha un’amante. Attende la coppia all’uscita da un ristorante, aspetta che il militare metta in moto l’auto dopodiché si fa investire diventando testimone con licenza di ricatto.
A quel punto l’acquisto del terreno demaniale è un gioco da ragazzi. E fu così che lo squattrinato neo-madrileno, giunto dalla provincia con le pezze nel sedere, fece tanta grana da divenire presidente dell’Atletico, nonché opulento “ganadero” (allevatore di tori da corrida) e finì pure a fare il sindaco di Marbella.
Bar e Barberia. Religioni madridiste
A Madrid, proseguì Trueba, è praticata la “Religione del Bar”. Vai a Barcellona e chi ti ospita ti mostra il suo ufficio, la bottega, il posto che gli dà da campare. A Madrid appena arrivi vieni subito portato al bar; al bar ci vivono, cominciano a frequentarlo dal “desayuno” (prima colazione) proseguono con lo spuntino a metà mattina, poi l’aperitivo con Tapas; al bar si sosta, si incontrano amici e clienti, ci può scappare una siesta e nessuno si scandalizza, si legge e nei bar più letterati c’è pure tempo per la “tertulia” (discussione), mentre (salvo in qualche bar chic), appesa in qualche angolo, la tivù gracchia sovrana. E va infine segnalato il madrileno “culto del barbiere”, una istituzione tuttora viva ancorché in calo, colpa di tutti quei marchingegni elettronici e della stressante vita di oggidì che ha reso financo problematica la celebrazione della “siesta” (usanza tipicamente madrilena – definita “Yoga Iberico” da Camilo Josè Cela – che un tempo solo i cafoni interrompevano, telefonando nelle case tra le 14 e le 17 del pomeriggio). A Madrid, fino a pochi anni fa, esistevano barbieri “di ogni tipo”, posti di barba e capelli in cui variavano, si trattavano, ben definiti argomenti di conversazione. C’era una barberìa in cui si parlava di donne e di toros, in altre si discuteva di politica o di teatro, di sport o di affari. Il tutto era preceduto dall’apprezzabile gentilezza del barbiere che appena sistemato il cliente sulla poltrona gli domandava affabilmente “Con conversaciòn o sin conversaciòn?”. Dopodiché – accadeva ai tempi di Franco – se il cliente sceglieva la “conversaciòn”, il barbiere replicava precisando “A favor o en contra?”.
Capitale delle Capitali
Ma forse è passato troppo tempo dalla mia prima apparizione a Madrid. “Allora” i ristoranti della calle de Segovia stavano aperti notte e giorno (chiudevano solo il tempo necessario per le pulizie) poi passò un po’ di tempo, dopodiché in occasione di una Pasqua (se ben ricordo) si tentò di moralizzare un mondo sempre più degenerato, cominciando a dare una limatina agli orari di apertura dei locali, e venne infine l’agonia del Caudillo a consigliare ancor più morigeratezza (mancava solo il buco nel muro per assistere alla messa). Giunti ai nostri giorni, accade che ormai anche a Madrid devi guardare l’orologio, ancorché, se devi mangiare, puoi ancora contare sull’umanità dei camerieri. * Diversamente da quanto accade nel troppo sindacalizzato Belpaese, normalmente da un ristorante madrileno non sei respinto nonostante l’orario di chiusura sia stato sforato di un minuto. Ma quant’acqua è passata sotto i bei ponti (andarli a vedere, i “giri di città” non vi arrivano) del minuscolo Manzanares. * A proposito di mangiare! A Madrid è davvero valido non meno che foriero di risparmio il ristorante del Circulo de Bellas Artes, gran rapporto qualità-prezzo, vista su Calle de Alcalà e inizio Gran Via. Un posto che non sembra subire più di tanto il passar degli anni e che pertanto mantengo segreto e segnalo solo allo scarno gruppetto di chi legge questa “Ode a Madrid”. Composta senza pretese e senza quindi pretendere il monumento dedicato da Madrid all’autore di “Madrid Madrid Madrid”, il grande Agustìn Lara. El Flaco de Oro.