E’ aperta fino al 1 ottobre la mostra della collezione Pinault a palazzo Grassi, a Venezia. La prima esposizione temporanea nell’edificio dopo il restauro a cura di Francois Pinault, inaugurata il 30 aprile scorso, prosegue per un mese prima di lasciare la Serenissima.
Pochi giorni ancora, quindi, per prendere la via di fuga dalle folle di turisti di piazza San Marco e rifugiarsi negli spazi del palazzo settecentesco, rinnovato, negli spazi espositivi, dallo stile minimalista di Tadao Ando. Più silenzio, ma anche molte suggestioni possono venire dalla selezione di duecento opere dal ricco patrimonio di Francois Pinault. Tutti artisti contemporanei, dagli anni Cinquanta al Duemila, e un dichiarato intento di raccontare lo spirito dei giorni nostri: dove stiamo andando, come recita in inglese il titolo della mostra, “Where are we going”.
La vista dell’ingresso dell’edificio dal Canal Grande, con il “Balloon dog”, il grande cane fucsia di Jeff Koons, ha già fatto parlare di palazzo Grassi come di una “Tate Modern” veneziana. Un po’ come per l’illustre esempio di Londra, il percorso espositivo è più tematico che cronologico; la raccolta è di quelle che possono piacere al visitatore appassionato di opere contemporanee, impressionare chi non ne ha mai vista una e di certo lasciare un segno.
L’atrio e la scalinata di ingresso accolgono il pubblico con le prime opere: il cuore gigante di Jeff Koons, “Hanging heart”, le gocce di pioggia in caduta dal soffitto di “Vintage violence”, di Urs Fischer, il pavimento “rivisitato” dalle lastre di alluminio di Carl Andre, “37th piece of work”. In cima allo scalone, la radiografia del cranio di Pinault, di Piotr Uklanski, suona come un omaggio sui generis al nuovo presidente di palazzo Grassi.
Provocazioni, ma non gratuite, come lo scioccante “Him” di Maurizio Cattelan: un ometto in dimensioni naturali, inginocchiato, che il visitatore vede dapprima di spalle e può scambiare per un bambino. “Him” è invece Hitler e la sua posizione paradossale, quasi di preghiera, non rassicura.
Il video di Pierre Huyghe, “Les grandes ensembles”, sceglie un paesaggio apparentemente semplice per raccontare il disagio metropolitano: due palazzi della periferia parigina, ripresi ora dopo ora dalla notte all’alba, nei quali l’unico segnale di vita sono l’accendersi e lo spegnersi delle luci dalle finestre. Questo è il nostro mondo, sembra suggerire, così come quello straziato e insieme grottesco della guerra di “Dead troop talk” di Jeff Wall, o quello in bilico tra natura e tecnologia del maiale meccanico, “Mechanical pig”, di Paul McCarthy; o, infine, quello delle teche con scatole di medicinali di Damien Hirst. Il titolo dell’opera ammette che si tratta di “fragile verità”.
C’è spazio, nell’esposizione curata da Alison M.Gingeras, per diversi generi: pittura, scultura, installazioni, fotografia. La collezione Pinault possiede opere di movimenti già entrati nei manuali di storia dell’arte: pop art, arte povera, minimalismo, con nomi del calibro di Andy Warhol e Keith Haring, Mark Rothko, Robert Ryman. Tra gli italiani, in mostra Lucio Fontana, Piero Manzoni, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Pier Paolo Calzolari.
Ancora Damien Hirst, in un’opera degli anni Duemila, ha preso ispirazione dalla frase di Gauguin, “Where are we going? Where do we come from? Is there a reason?” per porre la stessa domanda: dove stiamo andando, da dove veniamo, c’è una ragione. Palazzo Grassi, secondo quanto annunciato, va verso un nuovo calendario di esposizioni che prevede arte contemporanea ma anche mostre sulle grandi civiltà del passato, in continuità con la passata gestione Agnelli. La prossima rassegna sarà sul Picasso degli anni dal ‘45 al ‘48 e dovrebbe aprire a novembre.
Per informazioni: http://www.palazzograssi.it