Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

Birmania, ora Myanmar, una terra di devozione

Birmania foto di Anandajoti Bhikkhu

Se penso alla Birmania il primo colore che mi viene in mente è il rosso. Un rosso corposo, denso, vitale che vedo ondeggiare intorno a piedi scalzi che calpestano strade polverose. E’ il rosso delle tonache che avvolgono i monaci buddisti

Birmania Monaci sulla strada foto di Samoano
Monaci sulla strada foto di Samoano

I Monaci, sono uomini e adolescenti, vecchi e bambini, un piccolo esercito in continua preghiera in Birmania, a cui il popolo offre cibo e qualche volta denaro, come parte imprescindibile della propria devozione. Li ho incontrati, da nord a sud, in rumorose pagode e in templi addormentati, dentro le scuole e lungo la strada, sorridenti e gioiosi ma anche seri e impenetrabili. Qualcuno mi ha raccontato brevi storie, qualcuno mi ha sgridata per essermi avvicinata troppo, qualcun altro mi ha benedetta sorridendo per una piccola offerta. Qualche vecchio mi ha fatto ridere, qualche bambino mi ha intimidito.  Sempre hanno attirato la mia attenzione. Vocianti o silenziosi, in gruppo o in solitudine, sono una delle facce indimenticabili della Birmania, terra di antica civiltà, che la follia di una lunga e sanguinosa dittatura ha recentemente ribattezzato Myanmar.

Sulle sponde del lago Inle
Birmania Villaggio sul lago Inle foto di Edorta Subijana
Villaggio sul lago Inle foto di Edorta Subijana

Nord-est, al confine con la Thailandia. Un luogo incantato in cui le case fioriscono sull’acqua e i bambini imparano a nuotare forse prima ancora che a camminare. Le donne lavano i lunghi capelli dentro il lago, accoccolate con grazia sul pelo dell’acqua e gli uomini gettano lunghe reti rigide e dondolano un piede a mo’ di remo. Invece della bicicletta qui c’è la canoa e i mercati settimanali sono spesso galleggianti. Come gli orti, i vivai, alcuni templi e molti degli alberghi più belli di questa zona. Alle cinque del pomeriggio inizia ad imbrunire, dalle montagne circostanti si muovono nuvole pigre che screziano un cielo altrimenti turchese e nella stagione delle piogge l’arcobaleno spunta a sorpresa, grande e luminoso.
Incontro i primi monaci a Nyaungshwe, una piccola città a nord del lago. Tanti, giovani e vocianti, quasi fastidiosi e con un’aggressività fuori posto dietro ai toni troppo alti. Stanno fuori dai monasteri che fanno loro da scuola e casa insieme e solo quando la ricreazione è finita è possibile entrare. Una visita è quasi sempre possibile, basta chiedere con gentilezza e levarsi le scarpe.

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Birmania Alla finestra del monastero di Shwe Yaunghwe Kyaung
Alla finestra del monastero di Shwe Yaunghwe Kyaung

Come al monastero di Shwe Yaunghwe Kyaung, dalle grandi finestre ovali contro cui si stagliano le silhouettes di monaci bambini. Contro il legno scuro, vecchio di quasi duecento anni, il rosso della tonaca è un’immagine che cattura tutta la luce intorno. All’interno, nella penombra più fresca, mi faccio cullare dalla nenia di decine di giovani voci che recitano i loro “mantra” all’infinito. Un piccolino, di cinque o sei anni, tiene tra le braccia un micino bianco e nei suoi occhi c’è spazio solo per una gioia infantile e assoluta. La stessa che ritrovo sul viso dell’anziano che accetta la mia offerta. Sorride, e so che sta pregando per me.

Mandalay, antica capitale della Birmania
Mandalay, monaci adolescenti
Mandalay, monaci adolescenti

E’ città colta e vivace da scoprire nei mercati serali, con le figurine pornografiche dei nostri anni Cinquanta vendute sottobanco e un’abbondanza di merce scadente, più triste ancora della miseria. Del resto, da queste parti la povertà è vera. Non si muore di fame, forse, ma l’embargo delle Nazioni Unite è da tempo duro e senza appello. In un tempio bellissimo, di legno finemente intagliato, due monaci bambini mi inseguono ridacchiando, insistono prima per farsi fotografare e poi per avere soldi in cambio. E’ il malcostume della povertà e più spesso di quei turisti che, per sgravarsi la coscienza e sentirsi bene accetti, crescono così torme di nuovi mendicanti. Più in là, due adolescenti decidono di fare pratica di inglese: un dialogo surreale in cui non sembrano tanto interessati alle risposte, quanto a verificare l’esattezza delle proprie domande. Poi si rilassano, e mi raccontano come sono finiti qui. Uno ha diciotto anni, e sta vivendo l’anno di preghiera e penitenza che ogni buddista osservante deve osservare almeno una volta nella vita. Capelli rasati e consuetudini da penitente ma a tempo determinato, insomma.

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Birmania Amarapura dopo la cerimonia
Amarapura dopo la cerimonia

L’altro, invece, ha diciassette anni, e da dodici vive lì. Hanno deciso i genitori per lui, quand’era bambino; un modo come un altro per assicurare vitto e alloggio ai propri figli. Ancora un anno, e dovrà decidere se prendere o meno i voti definitivi. Non saprei dire il perché, ma non mi sembra molto convinto.
Il monastero Maha Ganayon Kyaung di Amarapura, undici chilometri a sud di Mandalay, è un altro ricordo indelebile. Qui, ogni mattina alle undici in punto, centinaia di monaci di tutte le età sfilano davanti a devoti popolani che offrono loro del riso, che con l’aggiunta di carne e verdure è l’unico vero pasto della giornata per i religiosi. Poi solo te verde, fino all’alba del giorno dopo. Camminano raccolti e silenziosi, uno dietro l’altro, prima i bambini e poi gli adulti. L’unico rumore è il vociare dei turisti, mentre le macchine fotografiche scattano senza misericordia. Com’è possibile che il gesto nato dalla devozione del popolo, si trasformi in uno spettacolo privo di qualunque mistero?

Yangon, la splendida Rangoon
Shwedagon Paya
Shwedagon Paya

Capitale dal 1885, sotto la dominazione inglese, teatro della sanguinosa repressione del 1988 di cui ancora non è dato di conoscere il numero esatto delle vittime, Yangon è una città a suo modo accogliente. Pullula di vita, di mercati improvvisati e ristoranti da “marciapiede”: quattro sgabelli minuscoli intorno a una pentola in cui cuociono “noodles”, minuscoli gamberi e frittelline di verdure.
L’ultima immagine che porto con me è quella di un monaco nella posizione del loto alla Shwedagon Paya, il complesso forse più famoso di tutta la Birmania.
Mi rimprovera perché – inavvertitamente – mi sono appoggiata, a qualche metro da lui, alla sua stessa pedana: una delle regole del Budda è che le donne non si avvicinino ai religiosi, a meno che non siano la madre o una sorella.

Birmania Sotto gli occhi di Budda
Sotto gli occhi di Budda

Per questo, laddove sia conservata una reliquia del Budda, le donne debbono restare fuori dal sacro recinto. Solo gli uomini possono arrampicarsi sullo “stupa” sacro, per coprirlo con le sottilissime lamine d’oro zecchino in vendita all’entrata dei templi. Sgridata, dunque, e senza tanti complimenti. E’ mio marito, perciò, a chiedere la benedizione per i rosari che abbiamo comperato tra le bancarelle, lungo le scalinate che conducono qui: legno di sandalo, di rosa, di teak, piccole sfere tutte eguali che è piacevole tenere tra le mani. Il monaco tiene i rosari tra le dita, e chiude gli occhi. La sua preghiera è lunga, l’intensità è commovente. Ieratico e composto, ha acconsentito alla nostra richiesta con semplicità. Ci saluta dicendo: “Dio è unico, e la sua benedizione è sempre con voi”.
Non ha sorriso neppure una volta.

“Yangon-Home for the aged” (Suore della Riparazione)
Yangon, Suore della Riparazione
Yangon, Suore della Riparazione

Tutto è iniziato con un passaparola e mi sono ritrovata a far da “corriere” per le  Suore della Riparazione che dalla casa madre in Italia inviavano lettere alle consorelle birmane. Dici niente. In un Paese dove la libertà di espressione è inesistente, sei costantemente sotto il controllo della polizia segreta e il capo dell’opposizione Aung San Suu Kyi  (premio Nobel per la pace nel 1992) ha vissuto per anni agli arresti domiciliari. Resta il fatto che prima ho portato lettere dall’Italia alla Birmania, e poi – decuplicate almeno – dalla Birmania all’Italia. In mezzo ci sono stati l’accoglienza, concordata all’aeroporto di Yangon e quella insospettabile al convento di Taungoo, nel centro del Paese. Capitata lì per caso, ho scoperto che tutti i conventi erano stati avvertiti della mia presenza in Birmania e che, per dirla con parole loro, tutte pregavano per me.
E poi la visita alla “Home for the aged” di Yangon, l’ospizio che queste consorelle aprono agli anziani senza famiglia di ogni confessione religiosa, uomini e donne. Un edificio ampio e pulito, semplice ma pieno di dignità, che sopravvive grazie alle offerte di privati, perché lo stato finanzia solo i buddisti. Suore della Riparazione e Francescane vivono sotto lo stesso tetto e la forza, la gioia e la semplicità che le accompagna valgono più di qualsiasi sermone. Ricordo una suora spagnola di oltre ottant’anni, con grossi occhiali scuri a proteggerle gli occhi dopo un’operazione, con energia da vendere. Nata a San Sebastian, nei Paesi Baschi, vive in Birmania dal 1947, anno dell’indipendenza birmana dalla Gran Bretagna. Se le chiedi qual è la sua casa ti sorride e dice che la sua casa, oramai, è tra questa gente. Ricordo Madre Claire, la superiora. Se non me l’avessero detto, mai avrei capito dalla sua umile semplicità che il “capo” era lei. Ricordo suor Letizia, appena rientrata dall’Italia dopo sedici lunghi anni; ha faticato molto per ottenere il visto e sa che non se ne andrà mai più; non le permetterebbero di tornare. Ricordo anche suor Florence, che ancora dice qualche parola di italiano e sorride sempre. Ma più di tutte, ricordo suor Gloria, piccola e scura, con un sorriso che le illumina gli occhi e fa sorridere anche chi le sta intorno. La sua gentile presenza è il segno concreto di quel che scrisse Kipling: “Questa è la Birmania, e sarà ben diverso da ogni altro paese che hai potuto conoscere”.

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