Venerdì 22 Novembre 2024 - Anno XXII

The Keith Haring Show a Milano

La Triennale ospita una grande mostra su uno dei “graffitisti” americani più noti degli Anni Ottanta. Che, ricordano i critici, era tutt’altro che un artista poco avvertito

Keith Haring
Keith Haring

“Preferisco che il lavoro parli di sé. Cerco di creare immagini che sono universalmente leggibili e autoesplicative… un artista è un portavoce della società, in qualsiasi punto della storia. Il suo linguaggio è determinato dalla percezione del mondo in cui tutti viviamo”.
Ecco l’idea ispiratrice dell’artista americano Keith Haring, simbolo del graffitismo underground, e protagonista della scena prima europea e poi newyorkese degli anni Ottanta, morto nel ’90 a soli trentun anni di aids, e che ora, a quindici anni dalla morte, viene ricordato in una grande retrospettiva “The Keith Haring Show” alla Triennale di Milano. La rassegna, curata da Gianni Mercurio e Julia Gruen, assistente personale dell’artista negli ultimi sei anni di vita e oggi direttore della Keith Haring Foundation, comprende circa cento dipinti, quaranta disegni, numerose sculture e opere su carta di grande formato.
Una vasta documentazione fotografica, circa seicento immagini, documenta inoltre il contesto attorno a cui è nata e si è sviluppata la sua arte. Tra le tele che raggiungono le dimensioni di oltre dieci metri di base o di altezza, vi sono le scenografie realizzate per la discoteca Palladium di New York, tempio della vita notturna negli anni ’80, e la scenografia realizzata per “The Marriage of Heaven and Hell” di Roland Petit per il Ballet National de Marseille. Sono esposte le famose “subway drawings”, le maschere “primitive” e cubiste, i grandi vasi di terracotta, le sculture totemiche in legno pittogrammate e quelle in metallo con i suoi omini realizzati con colori primari, le statue in gesso del David di Michelangelo o Madame Pompadour.

Underground e non solo

Senza titolo, 1982
Senza titolo, 1982

Gli esordi anticonformisti di Ketih Haring, in linea con la cultura underground, si sono svolti nei tunnel della metropolitana di New York, dove si divertiva a disegnare furtivamente figurine stilizzate e provocatorie sui cartelloni pubblicitari dei sottopassaggi. “Haring infatti non interviene con i suoi graffi sui vagoni della metro e rarissimamente sui muri degli edifici – sottolinea Mercurio – i suoi murales e le sue opere pubbliche sono un’altra cosa, e occupa unicamente lo spazio destinato alla pubblicità, quello che gli esperti direttori di marketing sceglievano per reclamizzare i prodotti”. Cresciuto in una piccola cittadina conservatrice della Pennsylvania, il più vecchio di cinque figli, l’unico maschio, con il padre ingegnere e la madre casalinga, arriva a New York nel 1978 per frequentare la Scuola di Arti Visive. Qui studia semiotica con Keith Sonnier e arte concettuale con J.Kosuth, ma sempre riconoscerà al padre il merito di avergli insegnato a disegnare e a inventare personaggi piuttosto che ricopiarli. “Haring – ricorda Julia Gruen era molto generoso, aveva tempo per chiunque, amava il pubblico e amava la vita più di ogni altra cosa. Ciò lo si può vedere nelle sue opere”. Ma vi era un’altra cosa importante per Haring: l’accessibilità delle sue opere, il concetto di “all over”, secondo cui “l’arte deve poter essere per tutti e dappertutto”. Per questo Haring sceglieva di esprimersi nei luoghi più a contatto con la gente e più visibili. Per questo sceglieva talvolta di coinvolgere nel suo lavoro bambini e studenti. Per questo sceglieva di colorare con figure allegre e vivaci le pareti di orfanotrofi e ospedali, oltre che quelle di locali, strade, cartelloni pubblicitari. “Il suo progetto – riflette Gianni Mercurio – era attingere, elaborare vari linguaggi, alti e bassi – non importa se di provenienza primitivista, rinascimentale o fiamminga – e creare un linguaggio rituale suo proprio che potesse comunicare a tutti il suo messaggio, un’arte talmente forte da poter penetrare tutto”. Importante è stato il ritrovamento dei “diari” che hanno consentito una lettura nuova dell’artista, rivelando una profonda cultura artistica ed esistenziale.

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Un linguaggio universale

Keith e Julia, 1986
Keith e Julia, 1986

Haring è un artista che si è mosso nella storia dell’arte moderna e contemporanea, nelle cui opere i rimandi alle iconografie e alle tematiche dell’arte occidentale, dal Medioevo agli anni Sessanta, e alle culture tribali africane, asiatiche e sudamericane, soprattutto precolombiane sono tanti. Questo aspetto significativo della sua complessa personalità è messo a confronto, nella mostra, con le radici culturali e i riferimenti storico-artistici europei e americani a cui l’artista ha fatto riferimento, dal primitivismo all’arte fantastica, apocalittica, pop, espressionismo astratto.
“I suoi riferimenti, gli artisti che più apprezza – spiega nel saggio all’interno del catalogo edito da Skira Demetrio Paparoni, critico e storico d’arte, sostenitore della necessità di un linguaggio più comunicativo e meno elitario e criptico per l’arte contemporanea – sono principalmente Henri Matisse, Fernand Léger, Pablo Picasso, Jackson Pollock, Pierre Alechinsky, Jean Dubuffet, Clyfford Still, Mark Tobey, Stuart Davis, Roy Lichtenstein, Andy Warhol. Haring non ha esitato a rifare quadri di altri, riprendendo, peraltro formalmente e in maniera esplicita, opere di Picasso, Léger o Matisse, a dimostrazione di come per gli artisti di ogni epoca la tradizione è una linfa vitale. Haring considera la storia dell’uomo fatta da idee che prendendo corpo ne generano altre, è convinto che si debba entrare in contatto con l’arte attraverso un’idea e riconoscerne gli effetti; per Haring è un’idea anche la forma. Fa propria la tesi di Isaac Newton: “Se vedo lontano è perché i miei piedi poggiano sulle spalle di giganti”.

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