Dicono le statistiche che la geografia è una delle materie di studio giudicate inutili o quasi; quindi trascurate da giovani, perché altro è il “sapere” che si privilegia, da adulti perché ci si concentra su interessi più concreti.
La geografia entra in ballo con i viaggi. Ho “fatto” la Patagonia, i Caraibi, le Maldive, Phuket. Un lungo volo, il pieno di sole e di mare, l’ubriacatura di shopping e di vita notturna, non importa “dove”; là, in qualche luogo già noto e frequentato. Poi si torna a casa e si annoiano parenti e amici con migliaia di foto o di fantozziani filmini. Non è così per tutti, naturalmente. Ma per molti è questa, la geografia. Un bene di consumo collocato in una dimensione di spazio e di tempo ben precisa e nulla più.
Maremoto sulla mappa del mondo
Provate ora ad aprire una carta geografica che comprenda quell’area vastissima che parte dalle coste africane e arabiche e scivola verso est. Troviamo, scavalcando la grande penisola indiana, lo Sri Lanka (l’isola di Ceylon di buona memoria) raggiungendo, attraverso l’Oceano al quale l’India ha dato il nome, le coste frastagliate della Birmania (ora Myanmar) della Thailandia, della Malaysia (la Malesia dei pirati), dell’Indonesia. Questo è il teatro fisico e umano che il maremoto ha sconvolto.
Direte, ma perché vederla sulla carta, questa immensa porzione di mondo, quando la tivù ci mostra, saltando da un luogo all’altro, gli effetti devastanti dello Tsunami, fenomeno naturale per fortuna raro, che in giapponese significa “onda del porto”.
Un motivo c’è. Solo facendo scorrere lo sguardo, lentamente, da un Paese all’altro, solo percorrendo idealmente le coste lunghe migliaia di chilometri che bordano il mare; solo individuando o sforzandosi di individuare quei microscopici punti che sono le isole piccole e piccolissime che punteggiano l’oceano, si avrà la possibilità di vivere interiormente lo sgomento, il terrore, per fenomeni naturali che ci sembrano impossibili tanto sono, loro si, globali.
Maremoto: il senso di impotenza dell’uomo
Provate ad affiancare alle immagini televisive che scorrono sugli schermi del mondo, l’anonimità di tratti di costa dei quali nessuno parla nei notiziari, per vivere sino in fondo quel senso di impotenza e di umana compassione al pensiero che anche lì, nei paesini prossimi al mare non frequentati dai turisti, in piccole isole che si accontentano di vedere la nave che arriva con le provviste ogni due o tre mesi, alle foci o nei delta di grandi fiumi che spesso esondano e sulle cui minuscole porzioni di terre emerse si ammassano persone che nessuno si sognerebbe di incontrare, dato che campano nel “nulla” geografico assoluto, è arrivato lo Tsunami.
Ha travolto, divelto, schiacciato, cose e case. Ha ucciso, ferito, annegato, spaventato migliaia di esseri umani, tutto sommato paghi di un’esistenza povera e dignitosa che solo in poche zone aveva conosciuto maggiore benessere, grazie al turismo, grazie ai dollari e agli euro di altri esseri umani più fortunati di loro.
Maremoto, dal ventre del mare
L’epicentro del terremoto, sviluppatosi a dieci chilometri di profondità sotto il livello del mare che in quel punto, al largo della parte settentrionale dell’isola di Sumatra è profondo circa quattromila metri, ha scombussolato gli equilibri della crosta sottomarina (addirittura arrivando a modificare l’asse terrestre), per il sovrapporsi delle placche continentali: quella dell’Australia che “spinge” quella del sub continente indiano. Fenomeno che ogni anno modifica (verso l’alto) la cima dell’Everest.
Il cataclisma biblico che ne è derivato (viene alla mente le acque del Mar Rosso al passaggio di Mosé) ha risucchiato e proiettato verso l’alto l’acqua dell’oceano, dando origine all’onda anomala. È come gettare un sasso nello stagno: più il sasso è grosso, più le onde che si propagano dal punto dell’impatto si allargano in cerchi che vanno in ogni direzione. Chissà mai cosa avranno provato i milioni di pesci, grandi e piccoli, sbatacchiati prima e aspirati poi dall’acqua in ebollizione. Avranno finito di vivere proiettati nel cielo, se non soffocati dalla forza immane del mare.
Maremoto: la Geografia minore
Definizione volutamente ambigua. Non esiste, infatti, una geografia “maggiore”. Quella minore, lo si capisce al volo, è quella che è rimasta coinvolta dal disastro e della quale non si sa ancora nulla, né si saprà nulla fra mesi, anni, forse mai.
Cosa sarà mai successo quando l’onda assassina, alta dieci, venti metri, o le onde successive, di poco inferiori, avranno raggiunto nel giro di nemmeno mezz’ora, le coste più vicine di Sumatra e delle isole Andamane e Nicobare? Che via di scampo avranno cercato gli abitanti (contadini, pescatori) dell’arcipelago delle Mentawai, lungo la costa di Sumatra?
Sappiamo della tristissima sorte degli abitanti di Banda Aceh, sulla punta più settentrionale della grande isola indonesiana; luogo poco frequentato dai turisti, perché è in atto una guerriglia per l’indipendenza della regione. Forse, qui come nelle Andamane e nelle Nicobare, isole con oltre trentamila “dispersi”, avranno avuto solo il tempo per rivolgere una preghiera ad Allah, come la loro fede ha insegnato.
Stessa domanda per un altro arcipelago birmano, quello delle isole Mergui, più a nord dei più noti paradisi marini della Thailandia. Paese ancora abbastanza “chiuso” per i turisti, si può solo presumere il terrore degli abitanti le cui capanne si affacciano sul golfo di Martaban, certamente privo di vacanzieri, ma densamente popolato da poveri esseri che avranno raccomandato l’anima a Buddha.
Maremoto alla velocità di un jet
O ancora, più a nord, mentre la grande muraglia d’acqua si avvicinava ad oltre settecento chilometri all’ora (è la velocità di crociera di un jet) come rendersi partecipi dell’angoscia degli abitanti del super popolato Bangladesh, perennemente alla mercé dei limacciosi delta del Gange e del Brahmaputra, all’arrivo dell’acqua dal cielo, a sommergere tutto. Si saranno terrorizzate persino le mitiche tigri del Sundarbans, cercando, con uomini e donne, un’impossibile via di salvezza.
Migliaia di morti anonime. Milioni di poveri individui che hanno perso tutto quel poco che possedevano.
Arrivando sulle coste indiane e dello Sri Lanka, stessa triste sorte è toccata agli abitanti del Coromandel; centinaia di chilometri lungo il mare del golfo del Bengala, densi di villaggi, ricchi di palmizi, di alberi da frutta. Scomparsi, non sappiamo nemmeno in quanti.
Maremoto: Sri Lanka Tamil e cingalesi uniti nella preghiera
Oppure lungo la costa orientale dello Sri Lanka. Viene da sorridere amaro al pensiero che sino a pochi anni fa qui imperversava la guerriglia fra i Tamil del nord dell’isola e i Cingalesi del sud. Trincomalee, Batticaloa (forse qualche turista in più), giù, sino a Galle, dove un intero convoglio ferroviario proveniente da Colombo è stato inghiottito dalla mostruosa ondata. Tutti accomunati dallo stesso destino e divisi nelle preghiere: chi a Buddha, chi alle divinità Indù.
Per giungere alle celeberrime Maldive, paradiso dei turisti, dei festaioli, dei Vip di mezzo mondo. Venti atolli con mille e ottantasette isole, duecentoventi delle quali abitate. Quale la sorte degli abitanti finiti sott’acqua e ben lontani da Malè, la capitale? I superstiti del maremoto vegeteranno nella spasmodica attesa che qualcuno li venga ad aiutare, confortare, prelevare.
Paradisi delle vacanze travolti dal maremoto
La carta geografica aperta sul sud est asiatico incontra anche nomi noti e frequentati da moltissimi europei, americani, italiani.
Il pensiero di chi scrive corre alla splendida costa del sud del Kerala, forse in parte risparmiata, ma senza alcun dubbio investita dai riflussi ondosi. Oppure si affaccia sull’incantevole Marina di Madras (l’odierna Chennai), larga alcuni chilometri, lunga non si sa quanto, con le bellissime rovine di Mahabalipuram, invase da acqua, terra, fango, uomini e animali morti.
Chissà fino a che punto la marea dell’onda anomala si è insinuata lungo il tratto terminale del Gange, giungendo sino al grande ponte in ferro che separa Haora da Kolkata (Calcutta)? Stesso pensiero per Rangoon (oggi Yangoon) la capitale dalle pagode d’oro, lungo la corrente dell’Irrawaddy.
Port Blai, Phuket, Penang, Malacca
Ancora le Andamane. C’è Port Blair, la capitale, protetta da una delle più grandi isole dell’arcipelago, ma quale sarà stata la sorte delle minuscole porzioni di terra, dai nomi perfettamente sconosciuti? Batty Mali, Tillanchong e cento altre; splendide e davvero “isolate”, nella tragedia consumata in silenzio.
Ecco infine la thailandese Phuket, famosa, brulicante vita e divertimento giorno e notte. Phuket dalle cento spiagge, dai mille ritrovi, paradiso dello shopping e del taroccato. Cittadina proiettata nell’arengo dei luoghi turistici più “in”, avrà già iniziato, pianti i suoi morti, a leccarsi le ferite infertele dal cataclisma marino.
Così come Penang e Malacca, più a sud, in Malaysia. Sembrerà loro impossibile che quel mare così caldo e accogliente, vivo nella miriade di pesci multicolori che lo popolano, abbia avuto l’animo di stravolgere il loro secolare e quieto adagiarsi sulle sue rive.
Pantarei, tutto scorre, purtroppo e per fortuna. Ma sarà difficile, per chissà quanto tempo ancora, farsi una ragione di ciò che è accaduto. Un evento troppo grande, troppo doloroso.
È giunto il momento di chiudere le pagine dell’Atlante. E di rivolgere un pensiero caritatevole per le migliaia di persone che non ci sono più.
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