Mercoledì 24 Aprile 2024 - Anno XXII

Penang, dove pregare è vivere

Tempio di Kek Lok Si foto di A. Müseler

Buddha e Allah. Gli dei cinesi dalla testa di drago e dal corpo di serpente. Il Dio dei cristiani. Ganesh e Visnù divinità induiste. Tutti hanno trovato un paradiso comune. Penang la terra eletta dove convivono in armonia da secoli

Penang Batu Ferringhi
Batu Ferringhi

Penang, la chiamano “La pura terra degli Dei”. Ogni credo religioso qui è rappresentato con chiese, templi, pagode di una bellezza disarmante. Candele, bastoncini d’incenso, preghiere in lingue e dialetti diversi, voti, richieste di grazie e promesse solenni salgono tra i fumi profumati nel cielo.
E’ nel cuore di questa isola malese che si è realizzato un incontro limpido e pacifico tra le divinità che governano e influenzano le azioni degli uomini nel resto del mondo. Se in altri paesi le contrapposizioni religiose creano violenze, che finiscono spesso in bagni di sangue, qui a Penang, tra le onde del Mar delle Andamane, gli dei hanno trovato il loro reciproco equilibrio e lo hanno trasmesso agli uomini.

Dagli inglesi, braccia a buon mercato

Penang Una spiaggia di Penang
Una spiaggia di Penang

Ad ognuno il suo luogo di preghiera. Gli inconsapevoli artefici del melting pot razziale e religioso che regna a Penang sono stati gli Inglesi. E’ stata un’isola disabitata e paludosa fino al 1786, anno in cui Sir Francis Light, capitano della marina reale britannica, decise di trasformare questo scoglio in una base navale della Compagnia delle Indie. Light era un avventuriero dotato di una pazza genialità. Il suo progetto ambizioso prese corpo e forma rapidamente. Nel giro di una ventina d’anni Penang ebbe il suo porto, un’elegante capitale come Georgetown e più di diecimila abitanti. Le miniere di stagno, le piantagioni di alberi della gomma, i commerci e gli scambi richiedevano mano d’opera sull’isola malese. Light risolse i suoi problemi con un’immigrazione forzata, letteralmente deportando intere comunità da altre colonie inglesi.

Arrivarono i Tamil da Ceylon, i birmani, gli indiani dalle province dell’Orissa e del Darjeeling, cui si aggiunsero, in successive e spontanee migrazioni, thailandesi, arabi, cinesi, vietnamiti, laotiani e, non ultimi, anche portoghesi e olandesi.Ogni etnia portò con sé le proprie credenze, effigi e statue delle divinità, la storia, i costumi e le radici culturali delle loro civiltà. Così è nata Penang, un cocktail di stili architettonici, un mix di facce e di caratteristiche somatiche tra le più varie, un complesso ardito di religioni, di pagode e di templi, un puzzle di etnie ben riuscito. Quest’isola malese rappresenta il modello quasi perfetto di una società cosmopolita e multi razziale, che sarebbe auspicabile si realizzasse in futuro nel mondo intero.

Ad ognuno il suo luogo di preghiera

Penang Una sala nel Tempio dei Serpenti
Una sala nel Tempio dei Serpenti

Penang viene anche detta “L’isola dei mille templi”. Non saranno un numero così esorbitante, ma un credente di qualsiasi religione, colto da improvviso raptus mistico, qui non avrà che l’imbarazzo della scelta. Una moschea, un tempio cinese, una chiesa battista o luterana, un tempio indù o buddista, si trovano ad ogni angolo. Non esiste in pratica una strada nella quale non si respiri un alito di sacralità, dove il profumo e le volute d’incenso non si mescolino con i più profani e terreni odori di cucina che salgono dalle bancarelle e dalle centinaia di piccoli ristoranti sparsi in ogni angolo dell’isola.

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Ma non si deve pensare a Penang come a un’isola noiosa e dedita solo ai problemi dello spirito. Se qui, negli anni Settanta, prosperò una delle più grandi comunità hippy dell’Asia, un motivo c’è. Penang è divertente, viva, è un’isola briosa, è un ammaliante inno allo shopping con i suoi moderni centri commerciali e con le centinaia di bancarelle e di piccoli mercati che offrono i più svariati articoli.  Penang vanta un raffinato passato coloniale e un futuro turistico d’élite; è la foto in bianco e nero di una Malesia antica, di molti anni fa, ed è anche un concentrato di Asia moderna in pochi chilometri quadrati, dove quasi tutto è davvero a buon mercato.

Un condensato d’Asia viva

Penang Il tempio buddhista Thai
Il tempio buddhista Thai

Il grande quartiere cinese di Georgetown è il portale da cui si accede per entrare nell’anima di Penang. E’ un posto per viaggiatori curiosi, per i cultori di quel gusto un po’ retrò, magico e misterioso che si respirava anni fa a Hong Kong o a Macao. Nella Chinatown della capitale si vende di tutto, dalla giada ai sandali di legno, dai pesci rossi alle sete pregiate, dai piatti fumanti di “nasi kandar” (riso al vapore con verdure e pesce) alle pergamene divinatorie da offrire agli dei.

Questo eccitante mercanteggiare avviene tra il ribollire di pentole Wok, sotto le mura di antiche case cinesi. Tra le preghiere dedicate ai serpenti o ai dragoni dei templi. Tra le carte di un anziano indovino che, per pochi ringgit, la moneta locale, predice tempi migliori, figli maschi, ricchezza e abbondanza. Camminare tra i negozi di Chulia Road, entrare nel dorato tempio cinese di Khoo Konsi o addentrarsi tra le bancarelle del grande mercato cromatico di Kuala Kangsar, equivale rivivere in prima persona gli scritti itineranti di Tiziano Terzani o ritrovare le pagine dal profumo d’Asia di Orwell.

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Penang, perfetto amalgama di stili e sentimenti

Penang Il Tempio Mahamariammana Georgetown
Il Tempio Mahamariammana Georgetown

Georgetown ha conservato intatto il fascino coloniale di fine Ottocento. Nel Weld Quai, il lungomare della capitale, si affacciano i bianchi palazzi vittoriani dalle morbide linee architettoniche, che fanno da contrapposizione a Fort Cornwallis, mastodontico e possente simbolo della potenza britannica di un recente passato. Interessante è anche Little India, nella zona di Lebhu Queen e Market Street. Qui ha il suo epicentro la comunità indiana. Appena terminato il quartiere cinese, dietro l’angolo si cambia improvvisamente latitudine e continente. I negozi offrono sete indiane finissime, gioielli, spezie dal profumo penetrante, cotone per turbanti e l’immancabile pollo al curry accompagnato dal pane “chapati” appena sfornato.

All’interno di Penang ci sono mondi paralleli che profumano di India, Malesia, Cina, Inghilterra, Thailandia, Burma e tutti convivono bene. Non ci sono ghetti o linee di confine, c’è rispetto per i sentimenti altrui, c’è una morbida forma di ossequio per la religione degli altri. E il nazionalismo malese, sempre presente, cementa ogni cosa. Il grande Buddha dorato siede benevolo dentro una sala del tempio di Kek Si Lok, sulla collina, sopra Georgetown. I fedeli accendono mazzi di bastoncini d’incenso e l’aria si riempie di un piacevole odore sacro e insieme mistico. Pregano in ginocchio, sollevando, fra nuvole di fumo, i “chopsticks” d’incenso e li infilano nel grande recipiente di bronzo sotto lo sguardo protettivo del loro dio, con la speranza che il Buddha magnanimo porti soldi, salute, prosperità.

La fede vissuta senza eccessi

Chiesa di Saint George
Chiesa di Saint George

Le voci basse e baritonali degli uomini escono dalle finestre della moschea più grande dell’isola, quella di Kapitan Kling, di un bianco abbagliante con le sue cupole gialle. Nel grande spiazzo, sotto i minareti, i ragazzi musulmani giocano a calcio, incuranti dei fedeli inginocchiati all’interno, sui tappeti damascati, che mormorano la loro litania araba che qui a Penang è rimasta un’innocente preghiera, mentre in altre parti della Terra è diventata un urlo di sfida e, talvolta, di morte: “Allah u’akbar, Mohammed rasullallah”; Allah è grande e Maometto è il suo profeta.

La chiesa anglicana di Saint George è molto inglese: un grande tempio dalle colonne ioniche in mezzo a un prato verde e ben curato in Farquhar Street. L’interno è sobrio, ricco di mogano, in puro stile inglese, asciutto. I pochi fedeli, eleganti e composti, ascoltano il pastore che parla di pentimento, dolore, salvezza.
In Burma Lane si respira un’altra aria. I templi buddisti thailandese e birmano infondono serenità e pace; non c’è dolore, espiazione, sofferenza, ma un umano contatto con un dio che non giudica o condanna. Ai piedi del grande Buddha reclinato, nella pagoda Thai di Wat Chaya Mangkalaram, passano i fedeli che giungono le mani, pregano e restano in contemplazione.

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A penang il sole tramonta lentamente

Penang, dove pregare è vivere
La statua del Buddha disteso di Wat Chaiyamangkalaram è la terza più lunga del mondo.

All’esterno della pagoda due grandi statue di serpenti sembrano fare un’immobile e muta guardia al loro dio adagiato su di un fianco, in posizione per nulla casuale: il Buddha è piegato verso l’uomo, verso le sue necessità e le sue debolezze. Nel tempio buddista burmese si va come in un giardino, tra aiuole fiorite e piccole vasche dove nuotano placide le carpe colorate. I due mostri Panca Rupa (mistici animali, incrocio tra leone, elefante, pesce, cervo e cavallo) sostengono e proteggono un enorme globo terrestre. Di fronte ad essi si fermano in preghiera gli abitanti di Georgetown.  Tra i profumi d’incenso passano i monaci dalla tunica rosso-amaranto e dispensano carezze sulle teste dei bambini, un “sinite parvulos” tutto orientale.

Il guardiano del tempio indù di Ayra Vaisyar, cinto da un pareo bianco e ocra, sistema le offerte: frutta, dolci, pane, sotto il tabernacolo della dea Kalì. I fedeli sfilano silenziosi e onorano i loro santi dalla forma di vacca, di elefante, in questa minuscola porzione d’India in territorio malese. Il sole tramonta lentamente a Penang, dietro il mare dalle belle spiagge di Batu Ferringhi cinte da mangrovie. Gli ultimi raggi illuminano i campi di riso delle pianure e le facce serene delle statue dei mille Buddha del tempio di Kek Si Lok. L’ultima luce del giorno sfiora i minareti, i grandi leoni dei templi cinesi, i campanili delle chiese anglicane e battiste, le statue di Ganesh e Visnù. Tutti gli dei di Penang vegliano sull’isola e aspettano, fiduciosi, le preghiere della sera.

Info: www.malaysia.travel/it-it/it

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