Amuleti in argento, lavorati a cera persa, a filigrana, a traforo, a sbalzo, in pasta vitrea, di conchiglie e corallo. Amuleti cui si attribuisce la funzione di allontanare de s’ocru malu, il malocchio. Campanacci e sonagli con funzioni apotropaiche che portano sulle spalle i mamuthones, i volti celati dalle minacciose maschere lignee di Mamoiada; protagonisti con gli issocadòres (portatori di soca, lunga fune usata per prendere al laccio il bestiame, in questo caso, gli spettatori) del carnevale nel cuore delle Barbagie.
Già, non siamo in Africa ma al Museo della Vita e delle Tradizioni popolari sarde di Nuoro; un mondo lontano anni luce dalla Costa Smeralda e da Olbia, che dista solo un centinaio di chilometri. La più completa esposizione sul popolo sardo si trova nella città natale di Grazia Deledda (di cui si visita la casa-museo); premio Nobel per la letteratura nel 1926, ha descritto in molti suoi libri il paesaggio e l’animo sardo, barbaricino in particolare.
Batte qui, nelle Barbagie, la zona più elevata e impervia dell’isola a bassissima densità demografica, il cuore della Sardegna. È la Sardegna montana e pastorale, che i sardi sentono come la più vera. Che la civiltà pastorale barbaricina abbia origini remote lo dimostrano, nelle vicinanze del capoluogo, le domus de janas di Valverde, ipogei preistorici scavati nella roccia e alcune tombe di giganti, sepolture collettive dei villaggi nuragici sulle pendici del monte Ortobene, a pochi chilometri dalla città e ancora i nuraghi di Tanca Manna e di Ugulìo.
Barbagia e Gennargentu: un’isola nell’isola
Barbària chiamarono i Romani questa terra difficile abitata da popolazioni che non riuscirono mai a sottomettere completamente, popolazioni che resistettero fieramente pure alle successive invasioni dall’esterno. Anche, almeno in parte, all’ultima, tra tutte la più devastante, che dopo il 1945 ha fatto vacillare l’identità sarda con l’inurbamento massiccio, la cementificazione selvaggia e il turismo internazionale sempre più invadente.
I villaggi barbaricini sono stati marginalmente interessati dalle trasformazioni che dal secondo dopoguerra in avanti hanno sconvolto gran parte dell’isola. Nuoro, tuttavia, ha subito un’espansione rapida e indiscriminata che ne ha fatto una città di quasi quarantamila abitanti, snaturandone in parte l’essenza agro-pastorale ma lasciando intatta la grandiosa conca montana che da qui si domina: a est il boscoso Ortobene e il Supramonte di Oliena, a sud il Supramonte di Orgosolo e il massiccio imponente del Gennargentu, centro geografico delle Barbagie: la “porta d’argento” secondo l’etimologia.
Feste religiose e pagane
Oliena, con i suoi vicoli tortuosi, le case candide ingentilite da balconi e pergolati e le tante chiesette ai piedi della montagna calcarea del Supramonte. Orgosolo, paese di pastori nella Barbagia di Ollolai con i suoi murales di denuncia politico-sociale degli inizi degli anni Settanta.
Mamoiada, di cui è celebre il carnevale e Fonni, il villaggio più alto dell’isola dove d’inverno si scia, hanno conservato grazie all’isolamento molte case rustiche – nonostante interventi edilizi poco rispettosi dell’architettura tradizionale – e modi di vita e di lavoro di antica vocazione pastorale. Come Desulo, Tonara, Aritzo, Belvì, borghi sulle pendici del Gennargentu che parlano un dialetto vicino al latino (il sardo è la più latina delle lingue neolatine) e festeggiano numerose ricorrenze, specialmente a carattere religioso.
Qualche esempio? La processione del Corpus Domini a Desulo in cui le donne indossano il tradizionale costume rosso e uno zendalo nero sul capo; la festa della Madonna dellaNeve la prima domenica d’agosto al passo di Tascusì, ai piedi del Gennargentu; la Sagra del Redentore a Nuoro (ultimi giorni di agosto) con la sfilata del più interessante vestiario popolare dell’isola; a Fonni, in agosto, il palio dove corrono i migliori cavalli e cavalieri di una terra che di manifestazioni equestri se ne intende.
Cavalieri nell’antico abbigliamento accompagnano a Orgosolo e a Dorgali le processioni dell’Assunzione il 15 agosto. Sono occasioni preziose per ammirare testimonianze del folclore isolano e costumi, che ogni paese sardo vantava fino agli anni Sessanta, che si ritrovano altrimenti quasi unicamente nei musei etnografici.
Un’isola diversa
Si capisce soprattutto nelle Barbagie che la seconda isola del Mediterraneo per dimensioni è particolare, anzi, diversa. Innanzitutto per la geografia che la rende l’isola più vera di tutte, distante 180 chilometri dalla costa più vicina, che non è il litorale della nostra penisola, ma quello africano. Poi per la storia, distante anche mentalmente dal resto del paese; dopo quattro secoli di dominio spagnolo, solo dal 1720 l’isola passò ai Savoia e iniziò a pensare (e parlare) all’italiana. La Sardegna, che fino agli anni Cinquanta ignorava le sue coste infestate dalla malaria, non ha una forte tradizione marinara o peschereccia; il mare l’ha in parte isolata e l’isola ha risposto agli invasori rifugiandosi, per fondare i propri insediamenti, nelle montagne dell’entroterra. Le montagne, appunto.
I sardi percepiscono la Sardegna, che ha oltre 1850 chilometri di sviluppo costiero (più di qualsiasi altra regione italiana) come un’isola di montagna. Ma colline e rilevi non superano i 1000 metri di altitudine – se si eccettua il picco più elevato del Gennargentu di 1834 metri – anche se appaiono spesso più elevati di quanto siano in realtà. Eppure per capire la Sardegna bisogna avventurarsi nelle Barbagie, che rimangono le zone più selvagge dell’isola, anche se oggi non sono più dominio esclusivo di pastori e greggi; la Sardegna conta tuttora oltre tre milioni di pecore, più di un quarto del totale nazionale e sull’economia pastorale si reggono ancora le comunità montane.
Natura forte, gente tenace
Gole, caverne, forre, fitte foreste, sorgenti carsiche, doline, giare, “tacchi” (torrioni calcarei), caratterizzano profondamente il paesaggio delle Barbagie, dove il vento la fa da padrone. Abitate da mufloni, martore, donnole, volpi, cinghiali e, specie sul Gennargentu, avvoltoi, grifoni, poiane, aquile reali, corvi imperiali, sparvieri, falchi pellegrini. E da gente austera, intrepida e tenace: in altre parole, balente. Che a fine Ottocento si identificava nel bandito “bello, feroce e prode” (Manlio Brigaglia, “Storia dei sardi e della Sardegna. Dalle origini alla fine dell’età bizantina”, Jaca Book, 1991), che in queste montagne trovava (e trova tuttora) rifugio.
Cibi e bevande dei pastori
Sanguinaccio di pecora (su zurrette), spiedino di frattaglie di agnello (trataliu), treccia di budellina di agnello di latte (cordula), su porcheddu, il tradizionale maialino di latte cotto allo spiedo, paste di semola di grano duro come gnocchi, gnocchetti, ravioli di ricotta o di pecorino fresco ed erbe, maccarones, minestre a base di quagliato di latte di pecora o di erbe spontanee, oppure di farro, fave o fagioli. E’ la gastronomia dei pastori barbaricini, forte, sostanziosa, da accompagnare con un Cannonau, rosso corposo che predomina in questa zona.
Non mancano pecorino, prosciutti, salsicce e la sottile sfoglia circolare di pane carasau, il pane indurito dei pastori che doveva resistere alla transumanza, mentre le sebadas sono focacce fritte con formaggio o ricotta servite con miele caldo.Per finire, acquavite filuferru o liquore di mirto.