Da molti anni è un fronte caldo. Trentaquattresimo parallelo nord,
76° meridiano est, 72° ovest. Pakistan settentrionale, per la precisione. Quello che dalla capitale Islamabad si allunga fino all’Afghanistan, al Tagikistan, alla Cina. Quello delle manifestazioni antiamericane ai tempi dei bombardamenti su Kabul. Degli attentati contro i cristiani. Delle armi che passano con disinvoltura da una frontiera all’altra a un passo dal vicino Kashmir, il territorio conteso fra Pakistan e India. E’ anche il Pakistan delle montagne: il Nanga Parbat, 8125 metri di roccia innevata fra le gole del fiume Indo e le alture della regione del Kashmir; il monte Rakaposhi, uno dei mitici 14 “ottomila metri” del mondo; catena himalayana. Fra queste vette si “nasconde” un Islam integralista che l’isolamento dal resto del mondo non facilita ad addolcire. Nella valle di Hunza, l’ultimo avamposto ai piedi delle nevi eterne, qualcosa però sta cambiando. Ci vivono un milione di musulmani ismailiti, i più tolleranti e progressisti del pianeta, e la loro è davvero una strana storia. Quella di un principe che è anche Imam, di una popolazione fra le più povere del mondo che oggi esporta modelli di sviluppo, di un deserto che fiorisce. Tutto questo grazie alla fede. E a una strada che non c’era.
La strada della montagna nera
Se si vola verso nord, dall’aeroporto internazionale di Karachi a Islamabad, dalla capitale economica a quella politica, è per seguire un irrefrenabile impulso da pionieri e inghiottire polvere e chilometri lungo quella che i pakistani considerano un’impresa ciclopica: 1200 chilometri di strada strappati alla montagna che, ripristinando il disegno di un’antica rotta carovaniera lungo la via della seta, hanno riaperto una comunicazione diretta fra Islamabad e la Cina. Un nastro grigio che qui chiamano Karakorum Highway, autostrada della montagna nera, costato vent’anni di lavoro e la vita a quattrocento operai, seppelliti da frane o scivolati nei precipizi durante gli scavi. Pagato il suo tributo di vite umane, la Karakorum rimane un’opera senza precedenti; il primo (e unico) collegamento degno di questo nome fra alcune valli della catena himalayana, prima completamente isolate, e il resto del Paese. In una di queste, la valle di Hunza, insieme alla strada e sotto la bandiera della fede, da qualche anno è arrivato anche il progresso. Si parla di Hunza come di una leggenda, la Shangri-La dei romanzi di James Hilton, ma il luogo esiste: è verso il confine nord-orientale con la Cina, nella Provincia di Frontiera del Nord-Ovest. Per raggiungerla bisogna arrivare a Gilgit, l’ultimo, vivace avamposto commerciale ai piedi delle grandi montagne, e masticare oltre 100 chilometri di curve e polvere fino alla piccola capitale, Karimabad. Qui, per la prima volta, si sente pronunciare il suo nome, principe Karim. Principe ma anche Imam, perché Sua Altezza l’Aga Khan, settant’anni, natali in Svizzera, laurea a Harvard, magnate della Costa Smeralda e proprietario di centinaia di possedimenti sparsi per il pianeta, è il quarantanovesimo discendente diretto di Maometto e il capo spirituale di una setta, quella dei musulmani Ismailiti, che conta 15 milioni di fedeli in 28 paesi del mondo. Molti vivono proprio in Pakistan, fra queste montagne.
Pakistan Capitalismo nel nome del Corano
La maggior parte degli abitanti di Hunza, al principe Karim deve molto più della fede. Il Pakistan è un Paese musulmano sunnita, il credo più rigido dei seguaci di Maometto che qui, in questa terra di frontiera, si manifesta nei kalashnikov esibiti dai ragazzini, nel corpo delle donne nascosto dietro il burka, il velo lungo e spesso che le copre da capo a piedi, come tanti fantasmi. Una visione che si ripete in tutti i villaggi della Provincia di Frontiera del Nord-Ovest, ad eccezione di Hunza.
In questo lembo di Islam progressista è infatti cresciuto un altro Pakistan. Una regione rinata grazie a un piano di sviluppo, l’Aga Khan Rural Support Programme, voluto nel 1982 dal principe Karim e da lui sovvenzionato insieme all’Unicef e alla Comunità Europea. Un’iniziativa che ha tolto il velo alle donne, ha portato bambini e bambine sui banchi di scuola, ha canalizzato l’acqua dei ghiacciai fino a valle per irrigare i campi, ha insegnato alle famiglie come coltivare, risparmiare, investire il raccolto secondo le regole della cooperazione fra i villaggi. Gli obiettivi non erano semplici da raggiungere: promuovere il capitale attraverso il risparmio, agevolare l’accesso al credito, migliorare le capacità finanziarie e manageriali, ricercare nuove opportunità attraverso lo sviluppo economico. Un microcapitalismo rurale, insomma. Fatto di sementi e fertilizzazioni.
College per signorine. Senza velo!
Oltre a Karimabad, circa un migliaio di villaggi sono passati da uno stato di povertà assoluta a un modello di sviluppo proponibile. Da quando l’Aga Khan Rural Support Programme ha preso il via, le cooperative di Hunza hanno convinto perfino gli esperti della Banca Mondiale, che hanno definito il progetto “superbo”. Le valli aride, i deserti di sabbia e sassi sono diventati campi e colline coperte di vegetazione: mais, orzo, frutteti, albicocchi soprattutto. Il segreto della riuscita del programma è nel profitto, piccolo, se preso singolarmente, ma concreto. Il contadino lo tocca con mano, e stringe più facilmente patti di fiducia con gli altri agricoltori. I più anziani raccontano che loro, gli hunzakut, erano una popolazione molto longeva: a settant’anni andavano ancora a caccia, chi moriva sotto i cento era considerato un fenomeno, ma in negativo. In realtà, l’illusione della lunga vita era prerogativa di pochi. Un bambino su cinque moriva di infezioni e malnutrizione, l’istruzione era una rarità (solo il 18 per cento sapeva leggere e scrivere), il reddito ridicolo, 180 dollari all’anno per famiglia, ben al di sotto dei 275 dollari che l’Onu ha fissato come soglia estrema di povertà.
Oggi a Hunza i numeri sono cambiati: duemila chilometri di canali d’irrigazione, cinque milioni di dollari messi a risparmio, duemila organizzazioni o cooperative locali che coinvolgono l’80 per cento della popolazione. Ogni villaggio ha i suoi specialisti in agricoltura, le donne lavorano negli ospedali (più di diecimila sono in grado di curare malattie e di assistere le partorienti), ogni paesino ha almeno una scuola. Le ragazze, che fino a una decina d’anni fa erano quasi totalmente escluse da ogni forma di istruzione, adesso hanno a disposizione i due college più qualificati della regione, a Karimabad e a Sherquilla. Dopo l’Aga Khan Rural Supporte, a Hunza si è sviluppato un altro programma, l’Aga Khan Education Service. Così il modello di progresso del Nord del Pakistan, tra gli anni Ottanta e Novanta ha messo a segno uno tra i più efficaci progetti di sviluppo delle popolazione povere.
Chi sono gli ismailiti?
Quando Maometto morì, nel 632 d. C., fra i suoi seguaci vi fu una scissione. Una parte sosteneva che, deceduto il profeta, bisognava seguire il suo insegnamento. Erano i musulmani Sunniti. Un’altra parte credeva invece che l’eredità spirituale di Maometto si sarebbe trasmessa fra i suoi discendenti, a cominciare da Alì, che ne sposò la figlia (Fatima). Questi erano gli Sciiti. Fra gli Sciiti, che oggi hanno raggiunto i 165 milioni di adepti (il 9 per cento dei musulmani nel mondo), crebbero molti “sottogruppi”. Uno di questi, prese il nome di Ismailita. Dopo i Twelvers, i Duodecimali, gli Ismailiti sono la seconda più grande comunità Shia (del casato di Alì) del mondo. Un popolo senza terra: vivono sparpagliati come comunità minore in tutti gli stati islamici del pianeta. Fra il 1830 e il 1840, a causa della difficile situazione politica in Iran, il 46° Imam, l’Aga Hasan Ali Shah, emigrò nel subcontinente indiano. Abbreviò il suo titolo in Aga Khan, e da Bombay pianificò aiuti per gli Ismailiti di tutto il pianeta.
Aga sta per Lord, Kahn è la traduzione di capo, Shah significa dunque Signore supremo. Il nonno dell’attuale Aga Khan è stato Presidente della Lega delle Nazioni e suo padre, il principe Aly Khan, era ambasciatore pakistano alle Nazioni Unite. Dal 1957, con la nomina di Karim, il sostegno alla comunità Ismailita di tutto il mondo è diventato ancora più consistente. Dopo il Pakistan il principe Karim adesso guarda all’Afghanistan: impegnerà 75 milioni di dollari in un programma pluriennale di sviluppo. In Euro fanno quasi 80 milioni, in vecchie lire 165 miliardi.
Viaggio individuale
Il Pakistan si raggiunge con la Pia (Pakistan International Airlines, Roma, 06/42012110) in volo da Roma a Karachi. Da qui si prende la coincidenza per Islamabad. Per entrare nel Paese è necessario il visto dell’Ambasciata del Pakistan, via della Camilluccia 682, Roma, 06 36301775.
L’itinerario lungo la Karakorum si effettua solo tra aprile e novembre: per il viaggio individuale si può contattare l’agenzia Sitara Travel di Rawalpindi (telefono dall’Italia 009251 566272 -564750, (info@sitarapk.ibrain.brain.net.pk), città gemella di Islamabad, alla quale è attaccata.
Organizzano trekking sul Nanga Parbat, il K2 e fra le montagne intorno a Hunza; viaggi in fuoristrada e pulmino lungo la Karakorum; l’air-safari sull’Himalaya.
Per dormire si consiglia l’albergo della catena Serena Hotel a Gilgit. Prezzi e informazioni possono essere richiesti al sito www.serenahotels.com