Alla domanda “Dove si producono i cappelli di paglia?” i giovani – ormai abituati a coprirsi il capo con i berrettucci yankee da baseball, per di più sbracatamente indossati con la visiera all’indietro – si avvarrebbero della facoltà di non rispondere.
I matusa, invece, esclamerebbero “Firenze”, risalendo con i ricordi a Odoardo Spadaro, grande chansonnier degli anni Trenta. “Il cappello di paglia di Firenze” fu infatti, insieme a “La porti un bacione”, uno dei cavalli di battaglia del “Maurice Chevalier italiano”, innamorato cantore della città del Giglio. Niente di tutto ciò.
Da Firenze a Montappone
La capitale italiana dei cappelli di paglia è, udite, udite, Montappone. Pensate al rischio corso da Spadaro: perché con Firenze gli sarà stato certamente facile trovare la metrica e le rime baciate, mentre la stesura di parole e musica di un ipotetico “Il cappello di paglia di Montappone” avrebbe sicuramente comportato qualche difficoltà in più.
Montappone, dunque, nelle dolci Marche, in provincia di Ascoli Piceno, poco meno di 2.000 abitanti (mica male, così piccola e già capitale) tra l’Adriatico e i monti Sibillini.
Per descriverne la storia bastano alcuni dati: sorge nell’XI secolo, nel 1050 inizia il dominio della famiglia Nobili (in pool con i Massa e i Brunforte) debellata nel 1355 da Gentile da Mogliano con la distruzione del “castello” (ricostruito 16 anni dopo ‘su licenza’ del cardinale Pietro De Stagno).
Si passa quindi allo Stato della Chiesa, ai Savoia, ai nostri giorni, con i Montapponesi sempre dediti alla coltivazione del grano, sinonimo di paglia, la cui lavorazione inizia nel Seicento.
Una storia d’amore di paglia
Ma alla freddezza dei numeri si contrapponga la tenera dolcezza che permea una campagnola leggenda locale sulla nascita del cappello di paglia. Tantissimo tempo fa, sui colli di Montappone regnava un re saggio, rallegrato da una bellissima figlia. Raggiunta l’età di metter su famiglia, la balda principessa fu notata da un giovane contadino che ovviamente non perse tempo nel chiederla in sposa al re; dal che si evince che la pratica di “attaccare il cappello” (tacà su el capèl in mandrogno/alessandrino, braguetazo in spagnolo) ha origini antichissime.Come sempre, i problemi nascono quando si comincia a parlare di soldi, e fu così che il re pretese in dono dal futuro genero nientemeno che una corona. Il coltivatore diretto ante litteram pianse miseria, lamentando di non possedere oro e pietre preziose per confezionare il regale copricapo. Per di più, se avesse abbandonato i campi per andare a cercare fortuna, al suo ritorno si sarebbe ritrovato con le spighe di grano, unico suo bene, pappate dagli uccelli. Il re, la cui simpatia verso il pretendente la mano di sua figlia era inferiore soltanto alla franchezza, gli suggerì tout court di arrangiarsi, non senza aggiungere che “Ognuno è ricco per ciò che ha, non per ciò che gli bisogna”. Profferita da un re, la massima poteva anche sembrare insolente, oltre che severa, ma fu di tremenda utilità per l’avvilito spasimante. Ritrovatosi nelle mani i soli gambi di tre spighe prive dei chicchi beccati dagli uccelli, il giovanotto ricordò improvvisamente quanto il futuro augusto suocero aveva sentenziato e cominciò a intrecciarli. L’operazione continuò oltre l’imbrunire, con altra paglia, per tutta la notte, e fu così che il mattino seguente il sovrano ricevette in dono una corona composta da tante trecce legate tra loro. Solo per i distratti e gli scettici si precisi che alle nozze della figlia con il contadino montapponese il re indossava l’umile non meno che rinfrescante corona paglierina.
Manualità antica e preziosa
Archiviata la favola del campagnolo divenuto principe consorte, si passa alla realtà informando che dal giorno delle suesposte nozze gli abitanti di Montappone si misero a intrecciare paglia, forse con poche speranze di entrare a far parte di una royal family, più concretamente con l’auspicio di ricavare un gruzzoletto da tanto lavorìo delle dita.
Dopo la sbiancatura al sole (se non bastava, ci pensava l’anidrite solforosa a renderla candida), la paglia veniva bagnata (se ne evitava la sbriciolatura) e finalmente intrecciata con 4, 7 e persino 13 fili. Ultimata questa operazione contadina, ammonente che chi vive nei campi non butta via mai niente, si passava alle esperte mani della cucitrice, che oltre ai cappelli modellava anche borse, ventole per il fuoco, cestini e tanti altri oggetti che oggidì si ammirano nei sempre più numerosi musei della “civiltà contadina”. Per descrivere la lavorazione e la confezione artigianale della paglia a un discreto livello produttivo si sono usati verbi al passato abbastanza remoto, riferendosi ai primi anni dell’Ottocento.
Già nel 1881, infatti, le dimensioni della manifattura del copricapo potevano essere definite industriali, con 2.053 specialisti e 1.951 salariati, poco meno di 4.000 addetti sui 9.355 abitanti del distretto comprendente anche Massa Fermana, Monte Vidon Corrado e Falerone.
Oggi, un piccolo-grande business
Iniziata una descrizione con una tenera favola intrisa di laboriosità contadina e puri amori, massime da meditare e corone di paglia, è tutto sommato deprimente proseguire con dati di business ed economia. Ma si ceda il passo al cosiddetto progresso, informando che oggidì a Montappone (riporta il bel dèpliant dell’Assessorato alla Cultura, intitolato Immagini, Tradizioni, Storia, Cultura) “esistono oltre 70 aziende che producono, esportano, vendono al resto del mondo ogni tipo di copricapo; una realtà di proporzioni enormi quantificabili, in ordine al fatturato annuo, intorno ai 75 milioni di Euro”. Tanta produttività ha dato vita a un Centro Internazionale del Cappello che documenta, in un intrigante Museo del Cappello, la voglia di fare tipicamente marchigiana. A chi venisse l’uzzolo di visitare Montappone e il suo Museo, è suggerita la prima domenica d’agosto, in occasione della manifestazione della Pro Loco “Il Cappello di Paglia – dal covone al cappello rammagliato”.
L’antica tradizione della paglia di grano rivive per le vie del paese vecchio fra mestieri e giochi di campagna, musiche, stornelli ad impronta, vino cotto e cucina di un tempo.