Ladakh, alla scoperta del fascino di una natura isolata dal mondo tra gente semplice e ospitale. Ci sono arrivata in un giorno di gennaio, con uno dei pochi voli che, condizioni atmosferiche permettendo, si alzano all’alba da Delhi, sorvolano le montagne dell’Imachal Pradesh e atterrano nel piccolo aeroporto militare di Leh. Ci sono arrivata nel periodo più sconsigliato dell’anno, senza sapere cosa avrei trovato; con un bagaglio carico di indumenti pesanti, “perché” mi avevano ripetuto l’estate prima “il freddo qui non concede tregue”. E ci sono arrivata ricordando una Leh affollata, con le poche strade che la attraversano piene di macchine, camion, corriere sgangherate e poliziotti che fingono di controllare il traffico.
Una città viva, insomma, e persino troppo rumorosa e inquinata per trovarsi accanto all’Himalaya.E invece sono atterrata in una cittadina spoglia, desolante e terribilmente silenziosa. Poca neve ghiacciata ai lati delle strade, la maggior parte delle botteghe chiuse in attesa dell’arrivo dei turisti, il mercato che, se il tempo è buono e gli aerei provenienti dalla capitale indiana possono atterrare, offre verdure fresche e polli interi, altrimenti propone cibi in scatola e inquietanti uova dure come pietre.
Ladakh, ai confini del mondo
In inverno, si raggiunge Leh soltanto in aereo. Le due strade militari che la collegano con il Sud dell’India o con il Kashmir sono impraticabili. In due ore, quindi, si passa dalla pianura di Delhi ai 3500 metri di altitudine della capitale del Ladakh. E questo può rappresentare un problema. Il secondo problema è il clima: un freddo secco e pungente, con temperature costantemente qualche decina di gradi sotto lo zero.
Nonostante Leh sia la cittadina più sviluppata di questa regione del Nord indiano, il riscaldamento delle case è assicurato solo dalle stufe a legna; non c’è acqua corrente e l’elettricità è concessa soltanto tre-quattro ore al giorno. Ci si sveglia all’alba, con il canto del muezzin (il 16% della popolazione del Ladakh è musulmana e accanto al tempio buddista esiste da secoli una grande moschea) con un solo, assillante pensiero: trovare il coraggio di uscire dal sacco a pelo per accendere la stufa e scaldare un po’ d’acqua.
Chiacchierate senza fine a Leh
I primi giorni a Leh, nel tentativo di abituare il mio corpo al clima e alla quota, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché avessi deciso di trascorrere l’inverno in un posto simile. Ospite di una famiglia che avevo conosciuto l’estate precedente, mi sentivo continuamente gli occhi di tutti addosso.
La curiosità di scoprire se un’occidentale sarebbe riuscita a restare in mezzo a loro così a lungo era persino imbarazzante; e non potevo fare a meno di sentirmi coinvolta in un’assurda sfida personale, in cui dimostrare che sarei riuscita a vivere come loro.
Passeggiando per la cittadina ho però lentamente ritrovato il motivo per cui vi ero arrivata. Gli abitanti di Leh lavorano poco in inverno, perché non possono coltivare la terra e non hanno turisti da intrattenere. E allora si concedono del tempo, e trascorrono lunghe giornate scandite da abitudini e ritmi lenti e rassicuranti. Non escono mai di casa prima delle dieci, e si infilano in una delle poche botteghe aperte o nella biblioteca cittadina a leggere il giornale appena arrivato da Delhi.
Giocano a hockey sul laghetto ghiacciato nel cuore della città, raccolgono la legna per la stufa, vanno al mercato… Ma soprattutto, chiacchierano.
Scaldarsi con una tazza di té bollente
Parlano per ore, seduti al tavolo di qualche ristorante tibetano con una tazza di tè bollente tenuta avidamente tra le mani, per scaldarsi. Parlano tra loro, e soprattutto parlano con gli stranieri che vagano per l’abitato alla ricerca del motivo del loro viaggio. Si raccontano, fanno domande, restano ad ascoltare le risposte. E poi, aspettano. Aspettano sempre qualcosa o qualcuno. Il volo da Delhi che porta la merce per il mercato e la posta per loro; la squadra di hockey della regione vicina, per un’appassionata competizione sportiva; la visita di un noto Lama da Dharamsala (nel vicino stato indiano dell’Imachal Pradesh e sede del governo tibetano in esilio), che possa tenerli impegnati per giorni nel Tempio, a pregare e ad ascoltare i suoi insegnamenti.
Com’è il Chadar?
E aspettano anche, con un’ansia incomprensibile per lo straniero, che faccia ancora più freddo e si sfiorino i -30, -35°C. E’ infatti con queste temperature che gli abitanti della valle dello Zanskar, una delle più isolate di tutta la regione, racchiusa tra ghiacciai che sfiorano i 7000 metri, segnano il confine con le terre del Kashmir e rendono impossibile ogni spostamento da ottobre sino a maggio, riescono finalmente a uscire dai loro villaggi e raggiungere Leh, per portare burro e formaggio di yak al mercato da barattare con riso e legumi e far visita ai parenti che hanno deciso di vivere in città. Possono farlo solo tra gennaio e febbraio perché, grazie alle temperature terribilmente basse di questo periodo, il fiume Zanskar ghiaccia e diventa una “strada”.
Un evento straordinario, che permette agli abitanti della vallata di dimenticare il loro isolamento e che coinvolge inevitabilmente tutto il Ladakh. “Chadar” in lingua locale significa “fiume ghiacciato” e in questo periodo non si fa che citarlo. “Com’è il Chadar?”; “E’ pronto il ghiaccio? E’ abbastanza spesso?”… Quando finalmente, in uno dei soliti ristoranti tibetani dove le giornate scorrono lente sorseggiando tè, entrano i primi uomini arrivati dal Chadar, la gioia di tutti è grande e l’accoglienza commovente. Li fanno sedere, li rifocillano, li bombardano di domande sulle condizioni del fiume, si contendono la loro compagnia, perché sono mesi che non li vedono e l’attraversata dello Zanskar non è mai uno scherzo.
Ladakh, viaggio sul fiume ghiacciato
Ho chiesto a un gruppo di uomini arrivati dal Chadar quando sarebbero tornati in valle; mi sono unita a loro e ho cominciato così il mio viaggio sul fiume ghiacciato. Le regole erano poche ma molto chiare: si marciava per 7-8 ore al giorno, concedendosi una sosta a metà giornata per mangiare e bere qualcosa di caldo.
Si dormiva nelle grotte lungo il fiume, e ognuno contribuiva alla ricerca della legna per il fuoco e alla raccolta dell’acqua in grosse taniche di metallo. Ma c’era anche un’altra regola, implicita, che aveva condizionato sin dall’inizio la mia presenza nel gruppo: bisognava resistere al freddo, non lamentarsi mai, non tradire alcuna debolezza che in qualche modo potesse compromettere anche la marcia degli altri.
Adattarsi alla vita nelle grotte
Nei primi giorni ho consumato la maggior parte delle mie energie nel tentativo di non sentire freddo, di adattarmi alla vita nelle grotte e dimostrare ai miei compagni di viaggio che avrei potuto farcela. Ma all’ennesima domanda di rito “Come stai? Hai freddo?”, ho risposto loro: “Sì, mi spiace; ho freddo e non so cosa farci”. Il Chadar, ovvero quel tratto di fiume che scorre in un canyon e non è toccato da nessun villaggio, è lungo oltre 130 chilometri ed è percorribile normalmente in sei-otto giorni di cammino; sempre che il ghiaccio si sia formato lungo tutto il fiume, e non sia invece necessario aspettare qualche giorno o tentare deviazioni più lunghe.
Sul fiume ognuno deve essere autonomo, badare a se stesso, portarsi il proprio zaino e non essere di peso a nessuno. Quindi, anche sentire freddo può diventare un grosso problema per tutto il gruppo. Da quella confessione, il mio rapporto con loro è cambiato, naturalmente; e affidarsi ciecamente ai loro consigli e alle loro usanze è stato inevitabile, oltre che doveroso. Ho permesso loro di prendersi cura di me; ho bevuto quell’improbabile tè con burro e sale che, come mi ripetevano ogni volta, “scalda il corpo e dà energia”; poi ho mangiato chili di aglio per aumentare le mie difese immunitarie e ho provato tutti i loro espedienti per non farmi stancare dalle basse temperature. Non sono riuscita in ogni caso a risolvere il problema del freddo, ma in compenso mi sono tolta di dosso quell’arroganza tutta occidentale che mi teneva inevitabilmente lontana da loro.
Ladakh: preghiere e oracoli buddisti
Il viaggio sul Chadar e nella valle dello Zanskar è durato quasi un mese e quando sono tornata a Leh le temperature cominciavano a sembrare più accettabili, pur mantenendosi intorno allo zero. Leh e i vicini monasteri di Stok e Matho stavano festeggiando l’inizio dell’anno tibetano con feste buddiste emozionanti, richiamando pellegrini da tutta la regione. Il Ladakh stava vivendo il suo periodo spirituale più importante. Alcuni monaci e contadini “cedevano” il loro corpo ad antichi oracoli tibetani; dopo un lungo periodo di totale isolamento e meditazione, si mostravano alla gente in cerimonie che erano un perfetto sincretismo di buddismo, animismo e superstizione. E alla fine di febbraio, nei cosiddetti “giorni di prostrazione” migliaia di fedeli di tutte le età hanno attraversato la città ripetendo mantra e inchinandosi a terra, senza mai fermarsi, dalle prime ore del mattino sino al tramonto, riempiendo la città delle loro preghiere.
Io continuavo ad avere freddo, ma questo non riusciva più a preoccuparmi. Lo ammettevo senza esitazioni a chi ancora continuava a chiedermi come stavo. E quando ormai avevo imparato a trascorrere le giornate davanti a una tazza di tè bollente, semplicemente parlando e ascoltando, ha iniziato a nevicare – segno che le temperature si erano alzate e il rigido inverno si stava allontanando – bloccando i voli da Delhi per giorni. La “strada” gelata del Chadar, come ogni anno all’inizio di marzo, ha cominciato a sciogliersi e a tornare ad essere semplicemente acqua, obbligando così gli abitanti della valle dello Zanskar a continuare il loro isolamento. Almeno sino all’inizio dell’estate e all’arrivo dei primi turisti.
Monasteri femminili da adottare
In Ladakh, e in particolare nella Valle dello Zanskar, esistono in tutto 20 monasteri buddisti femminili, spesso costruiti vicino a quelli maschili. Nel 1996 Tsering Palmo, una donna che ha studiato medicina tibetana e ha scelto la vita religiosa in età adulta (a differenza della maggior parte delle monache che sono invece convinte a prendere i voti da bambine) ha fondato la Ladakh Nuns Association (LNA).
L’obiettivo dell’associazione è di aiutare le circa 800 monache del Ladakh cercando “sponsor” in tutto il mondo, persone cioè che si impegnino ad adottare a distanza una delle religiose, garantendo un aiuto mensile di almeno 25 dollari. Sino ad oggi sono un centinaio le “nuns” che ricevono questo sostegno. Per saperne di più, visitate il sito dell’associazione: www.ladakhnuns.homestead.com o prendete contatto con Tsering Palmo: PO Box 157, Leh, Ladakh 194101, India.
I discendenti di Alessandro Magno
La valle di Dha-Hanu è racchiusa tra il Kashmir e il confine pakistano e da qualche anno, a causa delle tensioni tra India e Pakistan, si è riempita di chek-point militari. Qui, da oltre duemila anni, vive una popolazione di origine indoeuropea che nulla ha in comune con i vicini tibetani e indiani: i Dardi, chiamati anche “Brok-pa” (cioè “pastori”). Non più di 700 individui, sparsi in piccoli villaggi a nord di Kargil, con i lineamenti occidentali, la pelle chiara e un dialetto simile a quello parlato ancora oggi nell’area di Gilgit, in Asia centrale, dove venne fermato Alessandro Magno intorno nel IV secolo a.C.
I Dardi non si sono mai mescolati con le altre popolazioni. Mantengono curiose tradizioni e dalla terra in cui hanno deciso di fermarsi hanno assimilato soltanto la religione buddista; ovviamente interpretata a modo loro. Oggi, per raggiungere questo popolo, è necessario procurarsi un permesso speciale e a volte accettare di essere fermati e interrogati dai soldati indiani. Ma la presenza militare ha anche permesso ai Dardi di avere qualche agevolazione, come i pannelli solari sui tetti delle case, gli autobus gratuiti diretti ogni giorno a Leh, oltre a televisori e antenne paraboliche per scoprire che il mondo non finisce sulla vicina strada per Kargil.
Scialli Jamawar
Forse in nessun altro paese del mondo, come in India, passato e presente convivono. Probabilmente è questo il motivo per cui anche oggi molte tradizioni artigianali indiane appaiono invariate. Ammirando infatti lo straordinario stile delle donne indiane, i magnifici colori dei loro abiti e dei loro scialli, si può risalire a una tradizione antica che si perde nelle miniature mughal nelle quali già apparivano raffigurati gli scialli con disegno cachemire i cui colori sono gli stessi delle pietre dure di Jaipur.
Queste intricate armonie di disegni e colori sono giunte sino ai giorni nostri dalla lontana regione del Kashmir, dove fin dalla prima metà del XV secolo gli scialli venivano tessuti utilizzando la lana delle capre che pascolavano sugli altopiani dell’Himalaya.
Scialli prodotti un tempo per re e regine
La lavorazione degli scialli jamawar (parola che sta per “interamente lavorato“) è eseguita a telaio e impiega dai 750 ai 1400 aghi contemporaneamente, a seconda della complessità del disegno. Questi scialli venivano anticamente prodotti esclusivamente per re e regine e spesso erano utilizzati come pregiata merce di scambio per ottenere cibo, vestiti e rifugio. Nei secoli, la lavorazione dei jamawar ha subito l’influenza delle molte culture che via via hanno dominato il Kashmir: dai Pattans ai Mongoli, dai Mughals ai Sikhs.
In poco tempo la fama di questi splendidi e raffinati scialli crebbe talmente da raggiungere, attorno al XVIII secolo, la corte francese di Lione e il villaggio di Paisley in Inghilterra dove ne venne imitata la lavorazione. Oggi la produzione jamawar si è estesa dagli scialli all’arredo e decorazione della casa, con copriletto, cover, cuscini e carrè da tavolo, utilizzando la migliore lana e proponendo una vasta gamma di colori e disegni nella migliore tradizione artigianale indiana.
Scialli e sciarpe Pashmina su “La Via delle Indie”
Questi articoli rappresentano uno dei vanti de “La Via delle Indie”. Stoffe indiane rare e preziose, le bellissime sciarpe Pashmina fanno parte del più sofisticato artigianato popolare sin dal 1440 , anno in cui le donne e gli uomini delle montagne iniziarono a tessere e ricamare questi scialli pregiati.
Lo sapeva bene Napoleone che, di ritorno dalla campagna d’Egitto (le Pashmina già viaggiavano per il mondo!) ne fece dono all’imperatrice Giuseppina.
Pashmina, in antica lingua persiana, significa semplicemente “lana“; oggi è sinonimo della migliore lana del mondo: soffice e calda, viene ricavata dal pelo di alcune capre che vivono fra le alture dell’Himalaya. Grazie all’elevata altitudine, le fibre di questi filamenti si presentano particolarmente sottili, con un diametro cinque volte inferiore a quello di un capello umano.
Dopo la tosatura, a metà luglio, i pastori Chang–pas scendono a valle e vendono la preziosa lana grezza; le fibre vengono selezionate e lavorate e i maestri tessitori utilizzeranno le migliori per confezionare i Pashmina shawls. Per un solo scialle occorre la lana di tre capre. Esistono vari tipi di scialli Pashmina; il più pregiato è il silk Pashmina, un filato ottenuto con il 70% di lana Pashmina e il 30% di seta. Il capo che ne risulta avrà maggiore lucentezza e resistenza. E’ disponibile in varie combinazioni: 100% Pashmina oppure 70% Pashmina e 30% seta, in vari colori e dimensioni. Sono disponibili anche copriletto e Pashmina double face.
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