L’ Armenia di oggi è un paese mobile e inquieto. Piccola enclave cristiana stretta nella morsa di un passato grandioso e dell’universo musulmano. Isolata dal resto del mondo da un’economia fragilissima e da un muro politico e confessionale invalicabile. Sembra restare aggrappata all’altopiano caucasico come un lichene, tra speranze di sviluppo e crisi ricorrenti.
Né più né meno che dai tempi dell’Urss, le sorti dell’ Armenia dipendono dalla Russia. Lì lavorano centinaia di migliaia di armeni: il domani del paese è in funzione dello spessore e della puntualità dei loro stipendi.
Armenia paradosso economico
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ogni sabato e domenica l’enorme viale pedonale che si diparte verso Est da Piazza della Repubblica, il cuore della capitale Yerevan, si trasforma in un gigantesco mercatino all’aperto. Nato come rassegna d’arte locale e trasformatosi in un colorito bazar popolato di mercanti e imbroglioni, disperati e affaristi, madri di famiglia e manigoldi. Lì, due volte alla settimana, il paese si mette in vendita per sopravvivere: diodi, lampadine e chiodi allineati sul marciapiede come gemme sul panno di velluto di un gioielliere, ostentati uno per uno, lucidati, accarezzati. Ognuno espone la propria merce con il sorriso sulle labbra ed un inspiegabile, rassegnato distacco che rende i commerci locali molto diversi dalle concitate trattative levantine.
Un tappeto antico passa di mano per cento dollari, pari al reddito medio annuo pro capite. Ma in negozio un chilo di pane costa l’equivalente di mezzo euro. Un litro di benzina costa sessanta centesimi: come fa una famiglia a tirare avanti? “L’ Armenia è un economic paradox“, risponde un anziano commerciante. Così, ogni sera, il Jazz Club, locale in di Yerevan, si riempie di nuovi ricchi che ascoltano musica occidentale tra gli squilli dei telefonini. Intorno non ci sono mendicanti, ma solo i segni di una composta povertà e una distesa di tetti in lamiera dove d’estate il termometro sale sopra i 40 gradi e d’inverno scende sotto i –20°.
Yerevan, prima “casa” di Noè
Al Museo di Erebony è facile respirare l’aria di mistero che avvolge la civiltà di Urartu, fiorita sulle sponde del lago Sevan nell’VIII secolo avanti Cristo. La Cittadella, ciò che resta dell’antica acropoli del re Arghisti I, è anche un eccellente punto di osservazione. Si trova sopraelevata su Yerevan, sgangherata metropoli caucasica da oltre un milione e duecentomila abitanti (più di un terzo dell’intera popolazione armena). Secondo una leggenda la città sarebbe sorta nel punto in cui Noè, bloccato dal diluvio universale sulla cima dell’Ararat, vide affiorare il primo lembo di terraferma al ritirarsi delle acque: “Yerevats!”, avrebbe esclamato in armeno, ovvero “eccola!”.
Nelle sale polverose del grande Museo di Storia dell’ Armenia, custodi arcigne e tarchiate guardano a vista le teche. Fra note ancora vergate rigorosamente in cirillico, passano in rassegna tremila anni di storia e di guerre. Più ti aggiri tra gli androni e più hai la sensazione che quella coltre bigia che tutto permea sia pesante come il piombo. Quasi che ognuna delle mille invasioni subite avesse lasciato un velo di sé su ogni cosa: è la scia di arabi e selgiuchidi, ottomani e russi, turchi e tartari.
Sotto le volte del grande mercato al coperto di Tzatzkatz, nella zona dedicata alle verdure e ai sottaceti, dietro al banco ci sono ancora i discendenti dell’etnia malakan, originari del Volga. A Riataza, sulla strada che dalla capitale punta verso nord, spunta dal nulla una delle dieci comunità curde dell’Armenia. Sono venticinque famiglie di rito zoroastriano insediatesi qui, a oltre 2000 metri di altitudine, un secolo e mezzo fa e ancora dedite all’apicoltura e all’allevamento delle pecore. I loro stupefacenti monumenti funerari zoomorfi sono simili a greggi immobili.
La religione, vero collante armeno
Dura la vita, del resto, in una terra costituita al 90 per cento di montagne e altopiani sassosi non coltivabili. E anche minacciata continuamente dai terremoti. L’ultimo è stato nel 1988 e ha fatto 50mila morti. Non meno catastrofico, però, dell’invasione mongola del XIII secolo. I mongoli infersero un colpo mortale al fiorire dell’architettura religiosa armena, le cui vestigia punteggiano oggi il territorio. E se ad affievolire la spiritualità degli armeni hanno provveduto settant’anni di regime comunista, oggi il sentimento religioso sembra riaffiorare come il mastice dell’identità nazionale.
Chiesa armena la più antica del mondo
Poco importa se megalomanie di qualche esule miliardario portano assegni da milioni di dollari destinati spesso alla costruzione di enormi cattedrali di dubbie qualità estetiche. Come quelle in corso d’opera a Yerevan. Ognuno dei dodicimila manoscritti in armeno conservati nella biblioteca di Matenadaran, vero monumento alla tradizione culturale della nazione, pare lanciare al mondo messaggi di orgogliosa continuità.
A meno di venti chilometri ad ovest della capitale, a Vagharsharpat, nella basilica di Echmiadzin, in un tripudio di campane e di candele, ogni giorno i prelati celebrano una messa che dura due ore e poi vanno in corteo a prelevare il patriarca della chiesa ortodossa armena, Gareghin II – tunica damascata viola e un cappuccio nero – per concludere il rito tra cori ed incensi. Fondata nel 301 da San Gregorio Illuminatore, la chiesa armena si ritiene la più antica del mondo e festeggia oggi i suoi 1700 anni.
Armenia, un futuro nebuloso
E’ del resto una patina opaca e dolente quella che avvolge l’ Armenia. Come se il sole del domani non riuscisse mai a filtrare del tutto dalle nubi della storia. E i suoi segreti più intimi fossero destinati a restare nascosti per sempre, per la gioia degli studiosi e dei viaggiatori curiosi. Nella fresca oscurità dei suoi monasteri, occultati nelle volte umide dei gavit o imprigionati tra le pieghe contorte dei kashkar, i grandi crocifissi trilobati in pietra che costituiscono il simbolo stesso della spiritualità armena.
Un destino tormentato, quello armeno. Sospeso tra le cicatrici del passato e i fantasmi di un futuro costellato di incertezza. Saturo di un orgoglio culturale tanto legittimo quanto impotente, avvezzo alla precarietà, proiettato nel mistico.
Un destino sul quale l’onnipresente vetta imbiancata del monte Ararat pare incarnare la figura di un angelo custode. Beffardo e lontano come un dio epicureo, messo lì a vigilare ma senza alcun potere di intervento, segno di rimpianti più che di speranze. A toccarla con mano, si scopre insomma che la saga dell’armeno triste non è solo retorica da canzonette. Basta osservare i volti macilenti degli operai lungo la strada ferrata di Ahlverdi.
Ingabbiati nell’universo di lamiere e tubature arrugginite del sogno industriale sovietico. O lo sguardo sofferente delle donne coperte di veli che nelle chiese si chinano a baciare le icone, impetrando a Dio chissà quali grazie per un avvenire che forse non c’è. La stessa mestizia stampata in serie nell’espressione dei bambini che si aggirano con gli armenti e danno calci a un pallone tra le tombe del cimitero delle croci di Noraduk. Sperduto villaggio di pescatori su quelle che un tempo erano le rive del lago Sevan e oggi è un acquitrinio devastato dall’inquinamento e dall’uso dissennato delle risorse.
Storia di un vecchio eroe e del suo monastero
Aram Manouchian di anni ne ha ottantadue e sul petto porta ancora la decorazione dell’Armata Rossa. Una decorazione conferita a chi, come lui, nel ’45 entrò a Berlino con le armi in pugno. Da un quarto di secolo, ogni mattina, Aram percorre a piedi i 20 chilometri che separano il villaggio di Biura Chan dove abita, un’ora d’auto a nord di Yerevan, dagli spettacolari resti della fortezza e della chiesa di Ambert. Nessuno ricorda chi e perché o quando lo abbiano nominato custode, né in virtù di quali benemerenze, o con quale incarico. Lui è il custode e basta.
Ha lisciato le pietre della chiesa millenaria una ad una (la fondarono i principi Vachutian nel 1026). Ha serrato porte, ripulito altari, sfidato intemperie e rivoluzioni. Arroccato su quest’altopiano a duemila metri di altitudine, tra pascoli e alpeggi a perdita d’occhio, ciò che rimane in piedi del fortilizio altomedievale sembra rivaleggiare in resistenza con la fibra del vecchio combattente. Una fibra che ha un prezzo: 4mila dram al mese, più o meno 9 euro, per salire a montare la guardia a un monumento innevato fino ad aprile e deserto dal 1200, quando i Mongoli ne fecero piazza pulita. Tutt’intorno si ode solo il sibilare del vento sui kashkar, il muggito dei vitelli, il gorgheggio dei ruscelli e il raglio di un mulo al quale qualcuno ha attaccato un carretto che vende improbabili lattine di Coca Cola.
Lontana, ma incombente, la solita vetta bianca dell’Ararat osserva distratta.