Al mattino nella giungla, alla sera all’Opera. Se c’è una sintesi turistica che può colpire l’immaginazione è proprio questa. Indica un intreccio di interessi, di passioni che sono sempre state divise, ma che suggestionano profondamente.
“Natura e cultura”, il cruccio umano. Kuala Lumpur è nata per caso, sulla via dello stagno e dei guadagni conseguenti. Ma quando la Malesia si è fatto stato, ha saputo reinventarsi, e ancora oggi è una capitale in divenire.
Sulle tracce, sullo schizzo della città coloniale disegnata dagli inglesi alla confluenza dei fiumi fangosi (il Kelang e il Gombak, questo è il significato nel nome della città), KL, come viene sbrigativamente chiamata, ha lanciato una serie di sfide.
Non è più lo stagno a sostenerle, le sfide, ma il petrolio, odierna “lampadadialadino”. Come nel caso delle Petronas Towers (88 piani, 452 metri), al momento, le più alte del mondo. Sì, proprio quelle di Sean Connery e Catherina Zeta Jones, che danno visioni da brivido nel film “Entrapment”.
Etnie a confronto
Le Towers, come spesso succede alle città “nuove”, hanno cambiato il baricentro, spostandolo proprio sotto la loro maestosa mole. Una città di uffici e di negozi, di bar, banche, ristoranti, che attirano folla dalla mattina a sera inoltrata.
Un concentrato di quello che la Malesia è o vuole essere: stato petrolifero e piazza finanziaria, luogo del turismo e dello shopping. Uno spaccato da “tigre d’Oriente”, come qualche anno fa venivano definiti i “rampanti asiatici”.
E con una struttura professionale a base etnica, si potrebbe dire: impieghi statali ai malay, commercio minuto ai cinesi, affari agli indiani. D’altronde, la Malesia di questo melting se ne fa vanto: pur a maggioranza islamica, distingue e rispetta le varie religioni.
Un miracolo? Non proprio. La Malesia è uno stato ricco, e KL ne è la prova. Difficile quindi pensare ai contrasti, quando il business impera. D’altronde, il delicato e ponderato sistema federale si occupa di incanalare nella giusta direzione le energie del paese.
Le favolose Petronas
Le Petronas, si diceva. Sono un esempio di architettura globalizzata, firmata da architetti americani e locali: 88.000 pannelli di acciaio e di vetro, forme sfaccettate a formare un reticolo che ricorda le trame decorative mussulmane, le torri si restringono in un pinnacolo sommitale (a minareto?). Al 53.mo piano si inserisce un ponte corridoio mobile, per assorbire le spinte tettoniche e del vento, una sfida ingegneristica.
Da lontano sono un marchio forte, di notte appaioni come un gioco di luci. Sotto terra 5400 auto, un vero labirinto. Sopra, negozi a gogo (Suria KLCC), un vero percorso nel lusso planetario, più il Discovery Centre, un museo interattivo di scienza applicata (soprattutto al petrolio), la Galleria Petronas di Belle Arti e la Dewan Philarmonic Petronas, l’Opera di cui si parlava, 865 posti in perfetta acustica, con motivi decorativi della tradizione malesiana e i concerti della Malaysian Philarmonic Orchestra.
Fuori un immenso parco con laghi, fontane, alberi, percorsi nel verde, quasi a scusarsi di aver costruito così tanto, e una moschea per seimila fedeli (Masjid As Syakirin). Poi, a seguire la verticale, c’è la torre Menara Kuala Lumpur (1996, 421 metri) quarta al mondo, secondo la classifica dell’ “ansiadelsemprepiùinalto” che gli americani hanno trasmesso agli stati emergenti. In cima, ponte di osservazione su tutto il territorio federale e la valle del Kelang, ristorante girevole e stazione di trasmissione radio-tv.