“Un buon viaggiatore è uno che non sa dove sta andando, e un viaggiatore perfetto non sa da dove viene” (Lin Yutang)
Sarà poi vero? Il primo degli individui classificati da Lin Yutang (1895-1976, autore di un monumentale dizionario cinese-inglese pubblicato a Hong Kong) potrebbe a prima vista apparire uno sprovveduto, o meglio, uno che gira con la testa nel sacco. L’altro, poi, può suggerire l’impressione di non aver capito nulla di ciò che ha visto, sperimentato; ergo: un superficiale. A ben pensarci, tuttavia, l’aforisma si presta a una doppia interpretazione. Il buon viaggiatore va dove lo porta l’istinto, la curiosità, le circostanze, il fato. C’è poco o nulla di programmato, in lui. E’ quindi l’antitesi del viaggiatore moderno, che parte per un lontano paese avendo tutto, o quasi, con sé: guide come denaro, medicine come abiti, raccomandazioni di comportamento da parte di amici e conoscenti così come pregiudizi e luoghi comuni incasellati a dovere nel personale DNA. Quindi, secondo Lin Yutang, è un “buon viaggiatore”, perché accetterà e assimilerà, in perfetta simbiosi con l’atmosfera che lo circonda, ciò che la terra che esplora e la gente che conosce gli instilleranno nell’animo. Un magnifico, “impreparato” viaggiatore.
Il viaggiatore perfetto, addirittura, non sa da dove viene. Un nonsenso? Niente affatto. Questo tipo di viaggiatore avrà capito tutto del viaggio che ha compiuto, al punto che non avrà bisogno di spiegarlo, ai soliti amici e conoscenti, mostrando una carta geografica per indicarvi i luoghi in cui è stato o sottoponendoli alla tortura visiva di centinaia di diapositive.
Le nuove esperienze, per naturale sintesi biologica, si fonderanno con quelle antiche che possiede sino a formare un unico, compatto sostrato culturale. Il viaggiatore perfetto (qui, forse, la chiave di lettura) non “vorrà” ricordare ciò che ha visto per il semplice fatto che non avrà alcun bisogno di farlo per raccontarlo ad altri. Avrà tutto l’essenziale dentro di sé. Esperienze, emozioni, flash illuminanti di momenti irripetibili, persino spiacevoli avventure. Tutto farà parte di lui, compiuto affresco di vita per sempre indelebile. Senza alcun impulso di renderne partecipi terze persone. Ecco dunque spiegato perché non sa, e non vuole sapere, da dove viene.
La definizione di Lin Yutang si adatta al meglio per chi voglia visitare la Malesia. Occorre andarvi affidandosi interamente alle “scoperte” che si faranno. E’ quindi opportuno, una volta tornati alla base, dimenticare di esservi stati, per far si che il film girato dalla mente lì rimanga, pronto solo ai richiami che di volta in volta la stessa potrà sollecitare. E’ così che è nato questo Dossier. Trattandosi di giornalisti, nessuna parola sul viaggio in Malaysia, ma solo scritti, personale e originale rielaborazione delle teorie di Lin Yutang.
Malaysia un paese mosaico
Qualche indicazione può aiutare a capirne meglio l’importanza. Su circa 25 milioni di abitanti, l’80% vive nella Malaysia peninsulare; la rimanenza popola gli stati del Sarawak e del Sabah, nel Borneo. Il 62% di queste persone abita nelle città; gli altri, a vocazione prevalentemente agricola, sono sparsi nell’intero territorio nazionale. I gruppi etnici vedono i Malesi prevalere (65%), a fronte di un 26% di Cinesi, quasi l’8% di Indiani, via via tutti gli altri, compresi alcuni nuclei antichissimi di autoctoni. La lingua ufficiale è naturalmente il malese, ma sono largamente diffusi l’inglese, retaggio della dominazione britannica, il cinese, il tamil ed altre ancora. Il forte impulso nazionalista, l’orgoglio d’appartenenza ad un unico e coeso paese, promosso da anni dalle autorità, ha portato al risultato (notevole) di ridurre, quasi di annullare, gli attriti di carattere religioso.
La Malesia è ufficialmente una nazione islamica e i musulmani sono poco più del 60%; seguono i buddisti (quasi il 20%), i cristiani (9%), gli induisti (poco più del 6%). A seguire molte altre fedi, tra le quali emergono (2 e mezzo %) le religioni popolari cinesi.
La “svolta” malese
Paese senza contrasti, allora? Non è proprio così. L’articolo 160 della Costituzione definisce un malese come un individuo seguace dell’Islam, che parla il Malay e vive in conformità ai costumi malesi. Quest’occhio di “riguardo” della Costituzione nei confronti dei malesi, reso concreto da una gamma infinita di agevolazioni d’ogni tipo: istruzione, lavoro, assistenza sociale e sanitaria, concessione di terre demaniali ecc., in percentuali che oscillano dall’80 al 90% rispetto alle altre comunità, si è materializzato con il riconoscimento, da parte del governo, di una vera e propria etnia malese: quella dei “bumiputra” (figli della terra). La stessa “espulsione” di Singapore (dominata dai cinesi) nel 1965, pochi anni dopo l’indipendenza (1957) e dell’entrata nella federazione del Sarawak e del Sabah (1963), ha tracciato la via, superate le forti tensioni razziali e gli incidenti che ne sono scaturiti verso la fine degli anni Sessanta, ad una nuova Malesia, orientata a favorire il pieno inserimento dei “bumiputra”.Tutto ciò non è risultato all’inizio gradito alle altre etnie, cinesi in primo luogo; ma col trascorrere del tempo il migliorato tenore di vita, l’esplosione dell’industria e dei commerci, ha finito per assorbire le immancabili lamentele.