Ecomuseo “en plein air”
Cento sono i chilometri quadrati dell’Oasi Zegna, vero laboratorio all’aria aperta che si estende nella parte orientale della provincia di Biella.
Dal punto di vista orografico, l’Oasi occupa una propaggine delle Alpi biellesi, mentre la sua porta d’accesso è Trivero. La Cima del Bo, con i suoi 2.500 metri di altezza, è il picco più alto che taglia le valli del torrente Sessera, dello Strona e del Cervo, per formare quello che è a tutti gli effetti riconosciuto come un micro-ecosistema montano. O, per essere più precisi, un eco-museo.
Termine questo che affonda le proprie radici negli anni Settanta e che denota “…un’istituzione culturale assicurante in forma permanente, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione, valorizzazione di un insieme di beni naturali e culturali, rappresentativi di un ambiente e dei modi di vita che lì si sono succeduti”.
Quando come accade nel biellese un’area è composta da un gran numero di piccole comunità, quest’ultima costituisce un tassello di un mosaico, identificato e protetto da un coleottero.
Lo scarabeo d’oro
Come da copione, anche l’Oasi Zegna vanta un emblema.
Si tratta di un coleottero scoperto casualmente in un giorno di mezza estate sulle pendici del Bocchetto Sessera da Olimpia Sella, cugina di un famoso entomologo.
La dama, invece di fuggire inorridita davanti a questa kafkiana incarnazione antropomorfa, raccolse le spoglie della specie non ancora annoverata negli elenchi dell’epoca.
Portò la salma in dono a Eugenio Sella che la classificò, dandole la denominazione di “Carabus Olympiae”, in omaggio alla sua scopritrice. Da allora cominciò una caccia senza tregua che portò l’insetto a una progressiva estinzione, fino agli anni Quaranta quando, per fortuna, venne dichiarato “specie protetta”.
Se a livello faunistico un carabo rende speciale l’Oasi Zegna, a livello floreale i re delle alpi biellesi sono a pieno titolo i rododendri: gli alberi delle rose.
“Alpenrose” della Burcina
Dal greco “rodhon-dendron”, in allusione al colore del fiore che ha reso famoso un altro parco. Per raggiungerlo è necessario spostarsi a nordest della città di Biella e superare Pollone. Lì, dove la primavera tinge le colline di colori sgargianti, si estende la Burcina. A questo punto l’auto va parcheggiata per percorrere una strada sterrata che, fra tornanti e scorciatoie, conduce alla vetta del colle, dove si apre un panorama a tutto campo visivo, in rincorsa sfrenata dall’Adamello al Monviso.
Anche in questo caso, mecenate dell’impresa fu un industriale laniero specializzatosi nella fibra che proviene dagli ovini del Tibet: la pregiatissima alpaca.
Fu così che a cavallo dell’Ottocento Giovanni Piacenza acquistò il colle della Burcina, per trasformarlo in un parco che riprendeva gli stili architettonici del giardino paesistico inglese. La parte bassa del colle fu la prima ad essere colonizzata: sequoie millenarie e cedri dal libano andarono progressivamente ad incorniciare il laghetto intorno cui crescevano.