Il mistero di Nasca
Si sa. Quando gli uomini scoprono qualcosa di strano sul territorio, devono sempre trovare il perché del fenomeno. E se non lo trovano, inventano una leggenda: più o meno verosimile, più o meno poetica, più o meno popolata di protagonisti sovrumani. È successo per il lago del deserto, ma anche per i geoglifi di Nasca: solo che là, invece di Dio, sono stati tirati in ballo gli extra-terrestri. Questo penso, mentre il Chessna fora le nuvole, rade ma turbolente, con la sua rotta a otto volante. Poi, di colpo, una picchiata imprevista dà la giusta punizione (divina?) al mio scetticismo positivista.
Quando l’aereo, chissà come, torna a stabilizzarsi, ripasso gli appunti dove ho annotato i nomi di tutti i personaggi che si sono occupati del “mistero di Nasca”.
Il primo fu Luis de Monzon, un magistrato dei tempi dei conquistadores, che attribuì la paternità dei geoglifi ai Viracochas, leggendaria etnia “venuta da un altro Paese”. Poi arrivò Julio Telio, un archeologo peruviano degli Anni Venti, seguito nei Quaranta da Paul Kosok, altro archeologo, stavolta nord-americano. Infine, per tutta la seconda metà del Novecento, i geoglifi furono vivisezionati da Maria Reiche, matematica e astronoma tedesca.
Nonostante tanti studi, il “mistero di Nasca” resta, almeno in parte, irrisolto. Ma oggi ai Viracochas non crede più nessuno e ai marziani solo pochi ufologi incalliti.
Infatti sappiamo chi furono i veri autori dei geoglifi. Ad accertarlo fu soprattutto Kosok, che per primo datò e classificò i “disegni”, attribuendone la maggior parte a un popolo (convenzionalmente chiamato “i Nasca”) che abitò la costa del Perù molto prima degli Incas, tra il 500 a.C. e il 550 della nostra era. Tuttora irrisolti sono però due interrogativi: a cosa servivano i geoglifi e come fecero i preistorici Nasca a immaginarli visti dall’alto.
Geoglifi di ogni misura
Giro il secondo interrogativo al pilota: “Xavier, tu e il tuo aereo c’eravate già duemila anni fa?”. Lui non raccoglie, fa una brusca virata a sinistra e si sbraccia indicando qualcosa sotto di noi: “Mira…” ordina con un tono che non ammette repliche. Guardo fuori e sulle prime non vedo niente. Poi l’aereo si abbassa, l’occhio si adatta e giù, nella ghiaia, si delinea il profilo di un’enorme scimmia. Quanto misuri quel disegno è difficile dirlo dall’aereo, perché l’unico termine di riferimento è il nastro d’asfalto della Carretera Panamericana, che però è troppo lontano. Xavier mi dirà poi che la scimmia misura 93 metri per 58.
Quel primate taglia XL è solo la prima tappa di una sorta di lungo zoo virtuale.
Sotto di noi sfilano un cetaceo di 31 metri, un ragno di 48, una lucertola di 180, infine un condor e un colibrì di cui Xavier non conosce la lunghezza. Ci sono anche figure umane, una delle quali – cara agli ufologi e chiamata “l’Astronauta” – indossa uno strano copricapo a scafandro. Ma soprattutto sfilano grandi mani e figure geometriche: trapezi, rettangoli, spirali, oltre a linee rigorosamente rette che partono dalla piana costiera e raggiungono le prime falde dei monti. Il tutto è sparso su un’area di cinquecentoventi chilometri quadrati; parola di Xavier.