Rincorrendo i documentari delle “major” americane, mi era già capitato di seguire i profili sabbiosi e le imponenti testimonianze figlie della storia siriana. Questa volta, però, sentivo che sarebbe stato diverso. Il pretesto era fornito da un festival dedicato alla via della seta, che vedeva la Siria quale crocevia e linea di demarcazione tra il mondo occidentale e quello orientale.
La vagheggiata Siria, crogiolo di culture e culla di civiltà, si avvicinava selvaggia con le sue ombre d’ocra, simili a lame taglienti sulla pista dell’aeroporto di Damasco. Superata una farraginosa pratica di smaltimento visti, lasciamo l’aeroporto per inoltrarci nel caos cittadino; la città si accende, nelle ultime luci del tramonto, simile ad una donna orientale dalle forme opulente ed invitanti.
Da un Assad all’altro
Vista dall’alto, Damasco appare come un grande presepe bianco intervallato, a cadenze di spazio quasi regolari, dai pinnacoli verdi dei minareti. Un presepe e insieme un merletto: questa è Damasco di notte, perduta tra gli aromi delle sue spezie e il vociare dei muezzin che fermano la città, invitandola alla meditazione.
Ovunque, il volto di un leone: l’icona stilizzata del felino Assad che veste gli angoli più disparati della capitale. A cominciare dall’aeroporto, dove un Assad quasi caricaturale, in baffi e riporto con brillantina, accoglie chi arriva. O quella più ieratica che riluce dall’alto della lobby dello Cham Palace damasceno, dove l’immagine del padre Assad è accostata a quella del figlio, la cui carriera di ottico è stata virata in quella luminosa di diplomatico e statista.
La morte di Assad, avvenuta nel Giugno del 2000, ha precipitato la Siria nell’incertezza quanto a volontà di riforme interne e modernizzazione del Paese. Al rampollo Bechar è stato affidato l’arduo compito di mantenere la Siria in posizione di costante progresso economico e di equilibrio politico, nell’intricato scacchiere mediorientale.
Date queste premesse, con un folto gruppo di giornalisti mi lancio alla scoperta di questo paese dagli orizzonti desertici. Seguendo, come novello Teseo, il filo di seta del festival che mi porterà alla scoperta della Siria.
Cham, crocevia di Damasco
Se di notte Damasco era apparsa con le sue luci come un diamante sfaccettato dai mille riflessi e le vie della cittadella si erano rivelate impregnate dei sapori del tabacco aromatizzato bruciato nei narghilè, di giorno si assiste ad una netta metamorfosi.
La donna molle ed opulenta si trasforma in una metropoli caotica dal traffico intenso. Questo almeno di primo acchito: è sufficiente lasciarsi alle spalle l’arteria principale, buttarsi nel dedalo del suk per riscoprire nuovamente l’affascinate profumo d’Oriente.
I locali la chiamano confidenzialmente Cham, termine arabo che sta ad indicare un “neo”. Da sempre, infatti, Damasco per la sua collocazione strategica ha rappresentato un ideale punto d’unione tra il mondo occidentale industrializzato e quello orientale, quasi bloccato in un’istantanea che sa di “deja vu”.
Un neo a tutti gli effetti, per le carovane cariche di spezie o di tessuti che partendo dall’Oriente raggiungevano l’Occidente. All’ombra della sua fertile pianura Ghuta, la morbida città siriana si vanta dei soprannomi che di volta in volta poeti e viaggiatori le hanno dedicato.
Una storia infinita
La fertile, la profumata. Questa è Damasco, avamposto sulle rive del fiume Barada, crocevia dai natali millenari. Oggi come ieri, da capitale longeva quale è, tesse i suoi seimila anni di storia con fili d’oro e d’argento, ricamati su tessuti damascati, lasciando sulle Aghbani e sulle Abaya, decorate tipologie di mantelle locali, l’impronta inconfondibile dei motivi arabescati che rivestono il marmo e il basalto dell’intera città.
I primi insediamenti risalgono al cinquemila avanti Cristo e ovunque le pietre superstiti raccontano storie lontane migliaia di anni. Come quella narrata dai muri del Quartiere Cristiano, ad est della Città Vecchia. Dove oggi si erge una cappella dedicata a San Paolo, è indicato il punto in cui il santo fu aiutato dai discepoli a scappare dalla finestra per sfuggire agli ebrei. O come quella di Saladino, divenuta icona della storia araba per aver dato filo da torcere ai Crociati, la cui effige bronzea si staglia all’ingresso del mercato coperto e a cui è stato dedicato un Mausoleo dalla bella cupola rossa.
La moschea del sincretismo
C’è poi una storia che narra di Maometto ed è raccontata dai mosaici bizantini della moschea degli Ommayadi. Luogo onirico la Moschea; simbolo per antonomasia di Damasco; per questo impone rispetto. Che ha inizio col togliersi le scarpe, lasciate all’ingresso e con l’indossare lo spolverino fornito in dotazione a tutte le donne.
La struttura ha dato origine a un filo di perle lungo seimila anni, dove le stesse pietre sono appartenute a un tempio aramaico, dedicato al dio Hadad e venerato dai siriani per tremila anni, per poi divenire luogo d’incontro fenicio e ancora greco, romano, cristiano, per trasformarsi solo alla fine in un simulacro musulmano.
Simbolo della convivenza pacifica che i popoli della regione hanno spesso saputo costruire al di là di una politica proibitiva, la Moschea è ufficialmente sunnita, sebbene la principale appartenenza religiosa siano la sciita e la cristiana. Questo perché il luogo ospita le sepolture di san Giovanni Battista, ma anche la testa conservata nel sacello di vetro verde posto al centro della navata principale dell’Imam Hussein, figlio di Alì e perciò nipote di Maometto.
Un colpo d’occhio clamoroso è dato dai tre minareti costruiti in stili completamente differenti. La struttura della moschea domina altera lo skyline di Damasco, imponendosi come perla all’interno di un cofanetto color ocra.
Dedali sensoriali
Poco distante da lì, un ulteriore gioiello è fornito dal Bait Al-Azem: palazzo nobiliare voluto dal governatore ottomano Asad Pasha al-Azem nel 1749. Suddiviso in più edifici, rappresenta uno splendido esempio di una tipica residenza ottomana: dalle sale per gli ospiti, chiamate “salamlek” in segno di rispetto nei confronti di chi vi accede, si raggiungono le sale private: gli “haramlek”, sacelli che gravitano intorno a due cortili ricoperti di marmo a fasce policrome, a tutto vantaggio di un insieme visivo che attenua un poco la maestosità del luogo.
Zeppa di bagni turchi, Damasco offre in ogni suo angolo uno spunto per trarre ristoro: vaporosi hammam che accolgono ogni giorno centinaia di uomini; l’accesso alle donne è limitato solo ad alcuni giorni della settimana e non oltre le cinque di sera.
Caffè distribuiti lungo tutta la struttura reticolare, consentono di penetrare l’atmosfera araba, prettamente siriana, che si vive.
Tra i banchi dei suk
E poi c’è il suk: croce e delizia della città. Dedalo che nel suo caotico ordine gestisce i commerci di Damasco partendo dalla Via Recta. A Bzurihe, ad esempio, sono gli odori della spezie che stordiscono, mentre ad Al Sagha gli splendori delle botteghe degli orefici rilucono a poca distanza dal Museo della medicina e delle scienze arabe.
Ovunque, un’epifania di marmi e arabeschi che inducono il visitatore a camminare a testa in su, facendo vagare lo sguardo tra caravanserragli, moschee, minareti e madrase.
Qui, tra i banchi di Al Hamidiyeh e Madhat Pacha, dove si trova l’immensa madrasa Al Nouriya, ci si perde tra i colori della seta. E mentre mi abbandono alle emozioni dolci e violente di questo luogo così diverso ma a un tempo così familiare, torno ad inseguire il filo del pensiero che, nella sua suadente flessibilità, mi porterà fra breve al confine iracheno e quindi a Baghdad.
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