Delicate “stregonerie” della tavola
A Trieste, poi, devo pure il mio modestissimo (non meno che, ahimè, lontanissimo nel tempo) esordio nell’areopago degli scrittori turistici ai quali più o meno indegnamente appartengo. Mi riferisco a una recensione eno-gastronomica per una gazzetta del “trade” turistico, oggetto l’arcinoto, storico ristorante “Suban”.
L’opera letteraria non sarebbe risultata più scarsa di tanto se la valutazione non fosse stata compromessa dalla meschinità della presentazione: per colpa del solito refuso il mio editor-padrone aveva infatti titolato “Sudan, dove la cucina è tradizione”.
Meglio quindi eliminare – in occasione di questa mia ennesima visita a Trieste – ogni possibilità di errore proveniente da titoli impossibili o incapacità professionale e limitarmi a informare che al ristorante Scabar ho mangiato “Ombrina leggermente fumata su legno d’oliva e mostarda di ciliegie; Bigoli con sardoni salati e ricotta del Carso; Trito di mandorli noci pinoli melissa e buccia di limone; Trilogia di baccalà desalato con miele e mandorle tostate; Stoccafisso mantecato alla triestina; Fritto con salsa di cren e zenzero; “Rigoiancsì”.
A nulla servirebbero comunque i miei umili commenti giacché dalla sola lettura di sì elaborato e intrigante menu il cortese lettore avrà compreso che sono stato ospite di una cucina invero eccellente.
Memorie tristi e liete
Lungo il percorso che mi conduceva a officiare la più nota e liturgica tradizione triestina (una cioccolata al celeberrimo “Caffè Tommaseo”) eccomi incontrare tre luoghi producenti altrettante, differenti sensazioni, pensieri.
Alla Risiera di San Sabba (dal 1913 al 1943 stabilimento per la pilatura del riso, indi Stalag eppoi Polizeihaftlager fino alla primavera 1945) più ascolti le descrizioni di quanto vi fu perpetrato, più ti assale un solo sentimento: l’angoscia, purtroppo accompagnata dall’impotenza, dalla tragica certezza che l’essere cosiddetto umano, cioè io noi voi, è quello che è, alla faccia – siano comunque onorati i loro sforzi e il loro candore – di quelli (beati loro) che credono in un mondo migliore.
Passando fianco allo stadio dedicato al già lodato “Nereo Rocco”, l’anziano burbero che è in me, rimpiange i genuini “va in mona” del Paròn, ben meglio della tanta vacua aria fritta, bofonchiata per nulla dire nelle interviste di oggidì solo per stupido omaggio alle insulse mode attuali, leggi le fregnacce tipo “bipartisan” e “politically correct” (come se uno non potesse più dire quel che pensa).
E infine eccomi di fronte ai Bagni Pedocìn, vanto e tradizione della Trieste balneare, dove uomini e donne si ritrovano, convenientemente non meno che rigorosamente separati. E fu così che scoprii perché adoro il Mare Adriatico: in un suo ancorché piccolissimo punto, l’uomo può ancora vivere in grazia di dio (“In dòni, ìn mìa gent” – sono donne, non sono gente – Saggio Lomellino del Duecento).