Dopo doverosa non meno che goduta visita della parmense reggia di Colorno (ducato di Parma, Piacenza e Guastalla) con altrettanto doveroso acquisto di Grana e assaggio di Tusòn (vedi prima puntata) la canonica gita pontificante il 1° Maggio e avente per meta la mia Koinè della a me cara Romagna-Emilia è proseguita (seconda puntata) a Novellara (ducato di Modena e Reggio nell’Emilia) per necessario pit stop di Lambrusco e a Camposanto per il per me abituale (quando mi ritrovo nella mia Koinè) “pieno di primi tipici” (pure stavolta buoni ancorché ammanniti da uno chef forse – non si esclude – parente di Bin Laden) .
Esco dal Bottegone di Camposanto un filino appesantito dall’invero non macrobiotica deglutizione di tre “primi” (che mi evitassero di dover comandare anche un secondo piatto e il dessert) e pertanto – all’insorgere del quinti ruttino – mi chiedo anzi mi accuso di forse eccessiva esagerazione. E invece no, non esagero, perché penso (e trovo logico) che se uno parte da lontano e va (apposta) in un posto, una regione in cui eccellono alcune specialità gastronomiche, costui non possa far altro che “togliersi la voglia” dell’oggetto del desiderio.
Tanto per citare un altro esempio auto-assolutorio, quando vado nel “deep south” piemontese (Monferrato e Langa) ben noto per la Carne Cruda (a Milano totalmente inesistente o male ammannita con stupide e demenziali rivisitazioni) ne ordino e me ne mangio quattro o cinque portate, appetto ad amici e conoscenti pirla che si limitano ad assaggiarla come antipasto, dopodiché chiedono se c’è la ribollita e la cotoletta alla milanese (dopodiché, al dessert, invece di due o tre deliziosi Bunett, guardano il carrello dei dolci sperando di trovarvi una cassata alla siciliana).
Ferrarese, terre di mezzo
Lascio la provincia di Modena, non senza ricordare i bei tempi andati, trascorsi a Carpi tra amori, tigelle, gnocco fritto e borlenghi (roba che stavo orazianamente per riscrivere l’ode… Carpi Diem) e perdonando l’oltraggio infertomi poco fa dall’egizio chef “Bin Laden” (che al momento della comanda mi aveva chiesto se volevo “mezza bottiglia di vino”, al che, risentito e ritenutomi offeso, avevo risposto “mezza bottiglia di vino la proponi a tua sorella”).
Entro in Terra Ferrarese, che per me, se devo dire quello che penso, cioè il vero, non è più Emilia-Emilia perché contiene quel “plus” di multietnico che comprende a sud parte della Koinè romagnola (accomunata a quella emiliana solo per bassi interessi imperialistici industriali tendenti a colonizzare il Sangiovese e la Piadina) e a nord la mai troppo venerata cultura della Serenissima Repubblica, l’unico Stato (serio e indipendente) annoverato nello Stivale dal tempo dei Romani all’Unità d’Italia (voluta dalla regina Victoria, sennò col cavolo).
Aglio “mon amour”
Prima di arrivare alla mèta (Ro Ferrarese, e vabbè c’è pure la farmacia della mamma di Sgarbi, nemmeno i luoghi abitati sono perfetti, ma il posto è quieto e carino) passo per Casumaro che si dichiara (tramite un cartello stradale all’ingresso dell’abitato) “la città delle lumache”; non so cosa ne pensi Monsù Agnesina di Cherasco – che anni fa intervistai a proposito di Escargots – da sempre noto come il Re della Lumaca nazionale, nonché fondatore dell’Istituto di Elicicoltura, ma questa, direbbe Kipling, è un’altra storia.
Ma eccomi a Ro, mi trasformo in Camallo (ci sono i cartoni di vino da scaricare) e intanto cerco scuse per evitare le insane richieste del figlio dell’amico ospitante (vuole essere portato sulla sponda veneta del Po a vedere la Casa Natale di Lele Mora o quantomeno, in subordine, l’atelier dove esercitò da parrucchiere).
E la scusa la trovo. E’ infatti d’uopo andare a fare shopping a Gradizza, località satellite di Copparo, il cui bravo macellaio propone gustoso Somarino (profumato salame all’aglio). Resta lettera morta una mia proposta di gemellaggio con la novarese Borgomanero, patria del Tapulòn, sapido ragù di asino che molti, ahiloro, ignorano. E per acquistare qualche bulbo di questa adorata Liliacea, ci trasferiamo (sempre meglio “andare alla fonte”, una volta, in gioventù, partii per Pontecagnano solo per andarvi a gustare la rinomatissima pizza di un ristorante locale) ci trasferiamo a Voghiera, alle porte di Ferrara; divertente la sua Fiera dell’Aglio nel primo weekend di agosto, “anche” internazionale: l’anno scorso vi partecipò pure una cittadina “agliacea” della spagnola Castilla y Leòn.
Da “Future Memorial City”… a Pomposa
Chi gira da quelle parti prima o poi passa (visitarla, un “must”, un obbligo e chi ci trova qualcosa da vedere sarà premiato per l’ottimismo) per quella che è universalmente nota come la storica e ben nota “Città Preveggente”.
Si tratta di Formignana che già nel lontano 1100 così decise di chiamarsi in onore di Federico Formignani, direttore di “Mondointasca”, prevedendone appunto, di lì a qualche secolo, la fama universale che avrebbe raggiunto nel vasto campo – canapè pasticcini spumantino e ogni tanto un bel famtrip – della letteratura turistica (se stavolta non ci scappa l’aumento, meglio rassegnarsi per l’eternità, ndr).
Scherzi a parte (e serietà impone) scordare Formignana (e ancor più Formignani) e recarsi subito alla non lontana, magnifica abbazia di Pomposa. Un che di tenerezza ti pervade di fronte a tanta storia e tanto misticismo, per ricadere però immantinente nelle caduche debolezze umane. Sembra infatti, secondo malelingue d’antan, che le formelle di ceramica siano riproduzioni appiccicate su pareti e campanile di cotto all’inizio del secolo scorso. Quelle originali se le era fottute il priore per venderle e col ricavato pagare le prestazioni nonché i minuti piaceri delle sua tante amorose.