Le “Daewoo Matiz” e le “Lada Zigulì”. Due auto agli antipodi, per stile, design, prestazioni. La leggerezza del contemporaneo, la “coreana” con la lamiera che sembra solo “incartare” l’abitacolo, contrapposta alla solidità, all’acciaio “che è progresso”, al “peso insostenibile” dell’auto costruita a Togliattigrad, Unione Sovietica profonda.
Detto per inciso che entrambe sono state disegnate e concepite a Torino (la prima da Giugiaro, la seconda è la copia della Fiat 124) le due vetture sono emblema del presente e del passato dell’Uzbekistan, repubblica staccatasi dall’URSS nel 1991.
Il passato rifiutato, della conquista russa e della sovietizzazione (salvo poi accorgersi che bisogna continuare a usare il russo, come lingua franca). Il presente, di un Paese che tenta di inserirsi nei giochi mondiali, forte di alcuni “atout” non indifferenti. Come il gas naturale, il petrolio, l’oro, il rame, lo zinco, il marmo. Zigulì e Matiz.
Difficile liberarsi del passato, soprattutto se questo è arrivato con la potenza innovativa e devastatrice della Rivoluzione d’Ottobre, che ha collettivizzato le terre (imponendo la monocultura del cotone) e inventato uno stato chiamato Uzbekistan, terra degli Uzbeki. Non che gli Uzbeki (khan, mongolo Uzbek, regno dal 1313) siano un’invenzione, sono uno dei tanti rivoli dell’impero di Gengis Kahn. Tuttavia, le steppe e i deserti dell’Asia Centrale sono da sempre terra di passaggio e di conquista, come ha dimostrato Alessandro Magno, che da queste latitudini è rimasto affascinato, tanto da adottare a Samarcanda i rituali di corte dei despoti orientali.
Uzbekistan terra di grandi Conquistatori
Bene, dove torna il passato? In tante cose, ma basta guardare il cappello dei poliziotti, per capire: è tondo e grande, con enorme visiera, da portare all’indietro, come nei quadri del ’17 a San Pietroburgo. E poi nei particolari, come l’abitudine di portare i turisti con il pulmino fino al monumento da visitare, invece di lasciare una fruizione più individuale. O in quell’artigianato di Stato, che stempera la creatività. O nell’architettura e nell’urbanistica dell’Uzbekistan, che adottano ancora modelli chiusi, antisommossa (anche mentale) verrebbe da dire. Il presente, invece, è un libro aperto. Difficile coglierne gli orientamenti, se non nella volontà di uscire dall’isolamento, di mettere il paese sulle mappe geografiche, come si diceva un tempo. Peraltro, le mappe esistono da tempo immemorabile, dai tempi della “Via della Seta”.
Un percorso indefinito, variabile a seconda delle necessità e delle convenienze, assurto a mito assoluto come simbolo degli scambi oriente-occidente. E Samarcanda (la Maracanda di Alessandro Magno) ne era il “luogo” e il “logo”. “Per l’avidità di conoscere ciò che non potrebbe essere conosciuto, prendiamo la Strada d’Oro che porta a Samarcanda…” diceva il poeta inglese James Elroy Flecker (The Golden Journey to Samarkand, 1913).
E non solo. Timur-i Lang (1336-1405), “Ferro Zoppo!” (“ferro”, per dire potente, indistruttibile; “zoppo”, perché ferito in guerra alla gamba) come un “capo pellerossa”. In Europa chiamato Tamerlano, il geniale, invincibile, effimero sovrano del più grande impero del mondo, non sopravvissuto al suo fondatore. Come Alessandro, come Carlo, come Napoleone.
Samarcanda una fantastica città, “sole” del mondo
Samarcanda capitale dell’Asia, più di tutte le altre. Capitale aperta, senza difese naturali, vulnerabile come un giardino, ma con intorno sobborghi che si chiamavano Bagdad, Damasco, Il Cairo e perfino Parigi, per sottolineare con segni elementari, dove stava il “centro”, il “sole” del mondo. Costruita con il marmo di Tabriz, portato a dorso d’elefante e riempita di artigiani e artisti, ingegneri e intellettuali da tutte le province. Eppure Tamerlano viveva in una tenda, accampata nei giardini della città e, fuori le mura, c’erano ventimila altre tende. Potenza delle radici, mongole e nomadi, vere o simulate.
Tamerlano stratega, che abbatte tutte le barriere in Asia centrale e si allea con l’Europa in chiave anti ottomana e deraglia nell’ultimo azzardo, quello contro la Cina. È l’inverno rigido verso i passi del Tian Shan a dargli il colpo mortale, nel 1405. Un impero indifendibile, come tutti gli imperi, ma perfino più fragile, legato com’era alla personalità di un solo uomo, a sua volta ossessionato dal mito di Gengis Khan.
Tamerlano fondatore di un impero effimero
Anche se la sua discendenza in Asia Centrale e in India (dinastia Mogul) non si disperde, Tamerlano resta il solitario fondatore di un impero effimero. Ma anche di una parte del fascino surreale che ha esercitato ed esercita Samarcanda sull’Europa.
La città appartiene all’empireo dei “luoghi-non luoghi” (non nel senso di Marc Augé, i “non luoghi” urbani contemporanei). Dove si mescolano le immagini e i sogni, i cammelli delle carovane sulla Via della Seta con le imprese sanguinarie dei khan, le corti in cui veleno e testa mozzata erano il codice delle famiglie, dei clan, delle amicizie.
Le straordinarie ricchezze delle razzie e del commercio con la monumentalità della città. Un impasto di splendore artistico e di sanguinaria spietatezza, di furbizia levantina e fierezza mongola, di tecniche militari innovative e mollezza di costumi, di pietà islamica e di tradimento sistematico. Non a caso, il “Principe” machiavellano, pare derivato più da Tamerlano che dal Valentino.
Trionfo del blù e dell’oro
Samarcanda, dunque. Vale la pena togliersi subito la voglia: vedere dove e come sta sepolto Timur. Basta seguire la sua gigantesca statua e la Registanskaya per arrivare al Mausoleo di Guri Amir. Quel che resta è bellissimo e armonioso: una grande cupola maiolicata a “spicchi d’aglio” che racchiude una sala con le lapidi dell’Emiro, di figli, nipoti, consiglieri, più le cripte nel sottosuolo. Decisamente sobrio.
La sfarzosità si manifesta nel Registan (“piazza sabbiosa”, dove un tempo volavano le teste mozzate) che è forse uno dei più compiuti segni architettonici islamici di tutti i tempi: “madrasa” (scuola islamica) di Ulugh Bek (1420), Sher Dor (dei “leoni”, 1636), Tilya Kari (1630, al centro).
Un complesso di epoche diverse, ma armonico, con le grandi “porte”, le gallerie, le torri, le cupole blu, le sale con decori dorati, le moschee, i negozietti degli artigiani. Blu e oro, maiolica che luccica, segni geometrici decorativi, e un respiro da “grande cultura”. “Samarcanda, crocevia di culture”, dice l’Unesco nel 2001 e la inserisce nella sua lista del patrimonio umano. Da Samarcanda si passa a Shakhri Sabz (a sud di Samarcanda) luogo natale di Timur e da lui ribattezzato con questo nome, che significa “città verde”. Rovine del Palazzo d’Estate, Mausoleo di Jehangir, moschea di Kok Gumbaz.
L’altro Uzbekistan
Poi Bukhara (a duecentocinquanta chilometri di deserto). La Santa, capitale dei Samanidi nel X secolo, e di nuovo rifiorente nel XVI, con trecento moschee e cento madrase. Anche oggi luogo di madrase e di tappeti. Di mercanti insistenti, abituati alla trattativa più inverosimile. Forbici dal fabbro, che le forgia a forma di airone. Ceramiche dai colori verde e bruno. Tappeti di seta tessuti sui “dukon”. Mercati coperti che sembrano antri magici (Taqi Sarrafon, Kukluk). La fortezza Ark a fare da cittadella. La piazza Lyabi hauz (vasca centrale del 1620) a fungere da “foro”.
Le madrase di Ulug Bek (1417) e di Abdul Aziz (1652) a fronteggiarsi e rivaleggiare in maioliche. Il minareto Kalon (1217), un tempo la torre più alta dell’Asia centrale, quattordici fasce decorative diverse di piastrelle blu.
Khiva è un po’ la città museo. Imbalsamata alla belle meglio dai russi. Mura di terra un po’ rifatte, di straordinaria potenza evocativa. Sembrano quelle di Babilonia, o delle città assire, un monito solenne a chi arrivava dal deserto. All’interno, tutto ordinato secondo una concezione statica di museo, con le donne che vendono babbucce colorate indossando vestiti degli stessi colori e uomini che vendono colbacchi neri portandoli sulla loro testa. Questa è stata per secoli la capitale degli schiavi, un mercato alimentato dai predoni del deserto. Il khanato di Coresmia, il fertile delta dell’Oxus, verso il grande Aral. È come se ci fosse la cornice ma non il quadro: mura, fortezze e madrase a dare suggestione, senza che la vita scorra come ci si aspetterebbe che facesse.
Uzbekistan, regno dell’assetato “cotone”
L’Oxus (Amu Darya) è un fiume maestoso. O meglio, lo era, prima di andare a irrigare i campi di cotone, diviso in canali (il più grande il Karakum, che va nel Mar Caspio) non arriva più al Lago d’Aral, ma si insabbia nel deserto. Questo fa ulteriormente scendere il livello del lago, che si allontana dalla foce del fiume. Stesso destino per l’altro fiume-confine dell’Uzbekistan, lo Yaxartes (Syr Darya) il punto più a nord dell’impero di Alessandro Magno. Acqua per il cotone, che la assorbe avido.
Il “Gossypium hyrsutum”, arbusto a fiore rosso o giallo di cui si utilizzano le fibre, lunghe catene di cellulosa che avvolgono a palla i semi per il tessuto (si sgranano, si cardano, si pettinano, si filano) e altre parti, come i semi per l’olio, le stoppie come combustibile. Si semina a marzo, si raccoglie a settembre-ottobre, a mano e a macchina, quattro milioni di tonnellate all’anno che fanno del Paese il quarto produttore mondiale.
Uzbekistan, terra di antichi matematici, medici e astronomi
Il resto è curiosità. Il deserto, con l’Haloxilon aphyllum, una pianta che qui chiamano “saxaul”.
Foglie ridotte ad aghi, radici verticali lunghe fino a venti metri, unica pianta che resiste a sale, sabbia e a temperature che sfiorano gli ottanta gradi. Vi si rifugiano serpenti e lucertole.
Le pecore “karakul”, quelle dal vello “a permanente”, con i riccioli. Il nome, forse, dice poco. Ma se si ricorre al “nome internazionale” di Astrakan (il porto sul Mar Caspio da dove partivano le pelli) tutti capiscono. Sono strane, hanno grasso e acqua nella coda e (gli agnelli) alimentano il costume nazionale, il colbacco a busta (dal turco “kalpak”, berretto di pelliccia) che tutti gli uomini portano. Le tartarughe della steppa (Testudo horsfieldi) catturate e vendute a Mosca per brodo e carne a cinquanta dollari al piatto. Ma l’Uzbekistan non è solo questo.
È cultura profonda, nei secoli del Medioevo europeo. Basta pensare a tre personaggi: Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī (780-850) matematico dal cui nome deriva la parola “algoritmo” , che ha molti significati. Può voler dire un procedimento sistematico di calcolo, oppure un insieme di istruzioni ordinate per risolvere un problema; Avicenna, Ibn Sina (980-1037) medico e filosofo di cui si conosce, tramite la Scuola Medica Salernitana, la grande sapienza; Ulug Bek, nipote di Tamerlano, sovrano e astronomo, che misura la durata dell’anno con errore di un minuto sui sofisticati calcoli odierni. Lo si vede all’Osservatorio di Samarcanda, dove l’enorme astrolabio (strumento per misurare gli angoli dei corpi celesti) scavato nella roccia, è impressionante.
Informazioni utili: www.uzbekistanitalia.org
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