Giovedì 25 Aprile 2024 - Anno XXII

Scorribanda a New York

Un piccolo morso alla Grande Mela. Solo quattro giorni: toccata e fuga. Un ritorno, dopo il fatidico 11 settembre, con il cuore e la mente proiettati verso Ground Zero. Ma l’occhio scorre curioso “anche” sulle meraviglie e le miserie di Manhattan

Grattacielo
Grattacielo “new look”

Sempre sensazionali, sempre travolgenti, sempre un po’ oppressivi.  
Molti mi erano sconosciuti. Spuntati come funghi negli anni in cui sono mancata, mi risultavano nuovi di pacca. Scintillanti, vetrosi, specchiosi, acciaiosi più che mai.   Qualcuno magari – come vuole la moda “grattacielo anni duemila” – un po’ stortignacolo, con il tetto scivolato; strani angoli a punta che svettano nel cielo, le pareti sghembe. Ma tant’è, sempre grattacieli sono: banche, alberghi, complessi di compagnie finanziarie, torri di note industrie, con ascensori sempre più veloci e tintinnanti, straordinarie “hall, garden lobbies, shopping centre” interni.
Datata conoscenza – e ora nobilitata dal ritorno ad essere il più alto di N.Y. – l’Empire State Building. Sempre più vecchio, triste e brutto. 

La gente

Broadway
Broadway

Ormai una colossale babele di razze e di lingue, che corre, anzi saetta e fa lo slalom sui marciapiedi, sale in metropolitana, assalta i taxi, consuma breakfast a velocità ultrasonica e mangia “hamburger e chips” a mezzogiorno, riducendo i mille locali e localini a formicai vocianti e impossibili.
Parlare è un happening, pagare il conto diventa una sfida; code infinite, ragazze evidentemente improvvisate cameriere, che non sanno neppure usare le casse-computer e fanno errori di migliaia di dollari. Evviva la vecchia matita e il pezzo di carta! Ma fin qui non mi pare che ci siano molte differenze tra la gente di N.Y. di qualche anno fa e quella di oggi. Una sola forse: tutti (gli interrogati, ovviamente) dicono di essere in completo disaccordo con la politica di Bush. A New York usa così.

Ground Zero

Ground Zero dalla cancellata
Ground Zero dalla cancellata

Mi batteva il cuore scendendo dalla subway a Financial District.
Un buco tra i grattacieli rimasti in piedi. Uno spiazzo enorme, circondato da una cancellata, aldilà della quale si intravedono uomini con caschi gialli che ancora raccolgono pezzi, spianano il terreno, manovrano ruspe e bulldozer, vigilano che nessuno entri. In un angolo, sistemati in ordine cronologico, i pannelli che segnano i terribili momenti dell’undici settembre, con tanto di piantine, di rotte degli aerei, di spiegazioni dettagliate.
E poi le fotografie, allucinanti, i nomi degli autori sotto (sconosciuti che le hanno donate). Immagini angoscianti delle intrusioni, dei crolli, della gente che scappa, della polvere che avvolge tutto, dei fogli di carta che volano, delle facce stravolte di vittime e soccorritori. Testimonianze di dolore, di desolazione, di distruzione, di terrore. Qualcosa che attanaglia l’anima.
Vicino al buco, l’incredibile croce di ferro – due travi enormi a croce perfetta – così trovata tra le macerie, raccolta e messa in piedi a eterno simbolo di sacrificio, della perfidia umana e anche della speranza di redenzione e di pentimento.
Non sono riuscita a piangere. Il fatto è che – e non so bene perché –  difficilmente riesco a piangere quando sono molto triste e addolorata. Forse sono troppo arrabbiata.

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