Sono stato scolpito qui. Proteggo con il mio gemello l’ingresso principale della cattedrale di Cremona, che ad agosto dello scorso anno ha compiuto novecento anni. Proteggere magari è una parola grossa, come il mio basamento di pietra.
Sarebbe più opportuno dire che “abbellisco”; ma a me, che comunque sono un felino, piace l’idea di essere qui come fiero guardiano e non come soprammobile.
Un “guardiano” speciale
Sono un leone stiloforo, elegantemente accucciato e reggo una colonna impiantata sul mio dorso. Il portichetto, che io e mio fratello senza fatica sosteniamo, ombreggia da più di sette secoli i quattro profeti Geremia, Isaia, Daniele ed Ezechiele, nonché i quattro evangelisti, scolpiti sugli stipiti del portale principale come angelo, aquila, toro e leone. Il mio preferito è San Marco, perché come me è il re dei felini.
La scultorea fissità è l’unico motivo per cui, in questi lunghi secoli, ho visto passare di tutto davanti ai miei occhi bianchi, ma mai mi è capitato di visitare l’interno della mia chiesa.
Sono arrivato nel 1285, quando questo edificio aveva quasi un secolo ed era già la seconda volta che veniva costruito, perché quello precedente l’aveva distrutto un terremoto, uno dei pochissimi sismi rovinosi che si siano visti nella pianura padana. Davanti a me il Broletto, che vuol dire palazzo comunale.
Leone d’antica saggezza
Mai visto, in tutto questo tempo, conflitti tra potere temporale e spirituale che paressero insanabili, ma sarà perché ho una testa di pietra che non si lascia perforare da pensieri sottili. In compenso gli avvicendamenti dei conquistatori sono stati tanti.
Guelfi e Ghibellini nel Quattrocento. Sforza, veneziani, francesi, svizzeri, la città è stata martoriata dagli invasori, ma mai ha perso la fede, che tanto da queste parti assomiglia all’orgoglio. Credo di essere stato piantato qui per rappresentare il lato indomito dello spirito dei cremonesi, che sopportano, sopportano e mai cedono.
Nella navata centrale, terzo arcone a destra dell’ingresso, mi hanno detto di una lapide, datata 1512, che descrive bene il carattere di questa città e della sua rigogliosa ma dura campagna: “Avvilita dai Francesi, sottoposta a confische dagli Svizzeri, stremata dalla peste, sfinita per fame, mai tuttavia cessò di rendere onore a Dio.”
Sono anch’io intriso di onore e di forza e, con il passare degli anni, ho iniziato a capire le persone e i loro gesti.
La lunga sfilata di intere generazioni
Ho imparato che le truppe occupanti possono venire accolte con sorrisi alla funzione domenicale, che i poveracci, a seconda del vento, sono allontanati o soccorsi.
Ho visto funerali gioiosi, matrimoni funebri, cortei inutili, folle urlanti, anime devote e anime nere, esecuzioni capitali, assoluzioni. Mi è capitato di seguire intere vite dalla culla alla tomba, intuendo il loro svolgersi dai vaghi indizi che potevo cogliere dal breve passaggio delle anime, così come nel medesimo modo ho appreso le forme di questa cattedrale e la strenua visione che si coglie dalla cima del Torrazzo, la nostra gloria di cremonesi, l’altezza da cui è esaltante osservare la vasta pianura.
Dalla cima impervia di questa costruzione ardita, che sta a metà tra il campanile e la torre civica, si vede lontanissimo nelle giornate limpide – che a dire il vero sono rare – e vicinissimo nei giorni di nebbia del lungo autunno. Tante volte anche da quaggiù non ci ho visto a un metro dal mio naso di pietra e questo impedimento all’osservazione è di una poesia infinita, quando si è ispirati e una immane seccatura, quando si ha fretta o ci si è svegliati inversi. Ma io per mia natura sono sempre uguale, sempre pensosamente muto.
Il sogno: un leone nella Cattedrale
Ad addolcire il sole dell’estate e l’umido invernale, dal Cinquecento c’è il portico della Bertazzola, che accompagna il visitatore da qui al Torrazzo.
La gente che vi sosta è la mia unica e numerosissima compagnia. Da loro ho imparato ogni singolo particolare dell’interno, degli affreschi che pian piano hanno ricoperto le pareti. Mi hanno detto meraviglie della cripta, una stanza di colonne con il soffitto che brilla di stelle dipinte. Ne ho viste solo di vere, fino a oggi, ma forse un giorno, tra qualche paio di secoli, quando il tempo avrà levigato ancora di più il mio muso già allisciato dal tempo, sarò trasferito all’interno, insieme ai marmi e alle pitture.
Per quanto attiene al mio personale diletto, amo ascoltare le voci degli umani e osservare con un sorriso interiore il mercato del mercoledì, quando la piazza si riempie di fiori e piante. Maggio è il mio mese preferito, per via del profumo dei gelsomini che davvero mi inebria e alleggerisce la mia massa.
Infine vedo, sento e annuso e per quanto riguarda il tatto, sono in moltissimi ad accarezzarmi, perché di qui non passa creatura mortale che non abbia l’istinto di toccarmi.
A pensarci bene mi manca il gusto. Pazienza, me lo farò nel prossimo millennio.