Dalle movenze animali, l’autodifesa
Cosa vuol dire in concreto “difendersi come gli animali”, chi sale a Shaolin può vederlo dal vivo, perché i monaci d’oggi tengono regolarmente dimostrazioni pubbliche della loro arte. A dare il nome alle mosse-base del kung-fu sono il drago, la tigre, la pantera, il serpente e la gru. In pratica vuol dire che con colpi “d’ala”, “di becco” e “di artiglio” si può raggiungere una potenza d’urto capace di spezzare assi, pali, pile di mattoni. E che con agili svicolamenti laterali, simili a quelli dei serpenti, si possono evitare i micidiali colpi avversari.
Ma che bisogno avevano dei monaci contemplativi di imparare tutto ciò?
Per rispondere bisogna capire cos’era lo Henan di quindici secoli fa. Allora, quando da noi l’Impero Romano era appena finito, in Cina regnava una dinastia straniera, i Wei, brillanti più in battaglia che per cultura. Erano tempi duri, pieni di soldataglie vaganti. In più, sul Songshan c’erano attriti fra i neo-arrivati buddisti e i “rivali” taoisti, che consideravano sacro quel monte e non gradivano concorrenze religiose.
In quel clima, sapersi difendere era una necessità.
I monaci, molto meglio di Bruce Lee
Nei primi Anni Settanta il kung-fu (detto anche, nella sua versione originaria, shaolin-quan) ebbe una fase di grande popolarità in Occidente, grazie a certi filmetti girati a Hong Kong, poveri di trama ma ricchi di calci in faccia, che avevano sempre lo stesso primattore, il cino-americano Bruce Lee. Ma quella dei film era una versione commerciale e involgarita di un’arte che non è fatta solo di acrobazie atletiche: i monaci del kung-fu sono pur sempre dei religiosi; dietro le loro performances c’è un duro allenamento psichico prima che fisico.
A Shaolin questa doppia natura del kung-fu si percepisce perfettamente. Chi arriva trova prima una Scuola superiore di arti marziali, dove centinaia di giovani di tutto il mondo (Italia compresa) imparano le mosse della tigre e della gru in grandi cortili-palestra. Ma poco in là c’è un tempio buddista, testimone della cultura filosofico-religiosa che sta alla base delle arti marziali: là dentro non ci sono atleti, solo fedeli che pregano, fanno offerte e bruciano incensi. Alcuni sono militari in divisa, con tanto di stella rossa sul cappello a padella.
Sopravissuti anche alla “Rivoluzione culturale”
Apriamo una parentesi. I rapporti fra lo Stato comunista e i monaci di Shaolin sono stati quasi sempre ispirati a un reciproco rispetto: Pechino considera il monastero che fu di Bodhidharma una gloria nazionale e di fronte a ciò tutte le differenze ideologiche passano in secondo piano. L’unica eccezione a questa linea di condotta risale al 1966, quando la “Rivoluzione culturale” arrivò anche sul monte Songshan e cinque monaci furono messi alla gogna da un manipolo di Guardie Rosse. Poi tutto tornò come prima. Fine della parentesi.
Così oggi il Tempio di Shaolin è più che mai tirato a lucido. Dentro trabocca di immagini dorate di Budda e Bodhidharma. Fuori è circondato da statue di legno e da piccole pagode color ocra. Le statue illustrano la storia del kung-fu, le pagode ricordano tutti gli “abati” del monastero. A ricordare Bodhidharma c’è anche la famosa grotta delle meditazioni: se dal tempio alzate gli occhi, la intravedete sulla cima del Songshan; ma potete guardarla solo così, da lontano, perché da quindici secoli lassù non sale più nessuno, in segno di rispetto.