Sabato 27 Aprile 2024 - Anno XXII

Andare a Bogotà anche solo per il Museo del Oro

Bogotà museo dell'Oro

Una ricchezza incredibilmente custodita: trentaquattromila opere di oreficeria, ventimila tra pietre preziose e oggetti di ceramica, tessitura, appartenenti alle culture amerinde. Dei conquistatori spagnoli resta la passione per i tori. Interessanti le escursioni nei dintorni della città

Una delle stanze del Museo del Oro (© Fausto Giaccone/Anzenberger)
Una delle stanze del Museo del Oro (© Fausto Giaccone/Anzenberger)

Il riaperto e ancor meglio visitabile Museo del Oro costituisce, con la Candelaria, l’altra grande attrazione di Bogotà e la sola voglia di visitarlo potrebbe costituire valida “giustificazione” per chi dovesse spiegare perché intraprende un viaggio in Colombia. Il museo va visitato non tanto perché contiene, nel suo genere, la più importante collezione del mondo consistente in trentaquattromila opere di oreficeria e ventimila tra pietre preziose e oggetti di ceramica, pietra, tessitura.

Va visitato e “meditato” soprattutto perché fornisce al visitatore la certezza che all’arrivo di Colombo in America gli “Indigenas” (almeno in questa zona del Nuovo Continente, ottantaquattro etnìe con cinquantasei lingue, oggi dodici comunità principali) non erano poi quei selvaggi (da schiavizzare e convertire) dipinti dalla sedicente cultura europea.

Come avrebbe mai potuto, un “salvaje” (selvaggio) – il museo custodisce “prodotti” di tante culture amerinde, tra le più importanti quelle Quimbaya, Caima, Tayrona, Sinù, Muisca, Tumaco e Malagana – dare forma e bellezza a un minerale, trasformandolo in maschere, sculturine antropomorfe, pettorali, braccialetti, orecchini, collari, statuette, di assoluto valore artistico?

La Balsa Muisca, di cui alla vicenda del non poi così mitico Eldorado, costituisce soltanto uno splendido esempio, certamente il più bello, di quanto si ammira al Museo del Oro.

Poporo e foglie di coca
Un Poporo fitomorfo dei Quimbaya
Un Poporo fitomorfo dei Quimbaya

Ma tanti altri oggetti precolombiani muovono a tenerezza e solo la necessità di contenere gli entusiasmi impone una limitata descrizione. Assai raffinato e dalle forme armoniose un Poporo fitomorfo dei Quimbaya (Cinquecento a.C.- Settecento d.C.) laddove per “poporo” si intende un recipiente adibito al contenimento della calce in polvere (che veniva masticata con le foglie di Coca, dopodiché, ultimata la masticazione, l’amerindo sputava il tutto e si godeva tanti beati istanti di defatigante allucinazione, con o senza il permesso di Sciamani e Caciques). Meravigliosa la stilizzazione del Pesce Volante, un elegante, “agile” ciondolo d’oro ritrovato nella regione di San Agustìn (interno della Colombia, zona dell’alto Rio Magdalena) e accreditato al Periodo Clasico Regional (Primo-Decimo secolo d.C.).

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Passione taurina come in Spagna
Bogotà Foto di German Rojas da Pixabay
Bogotà Foto di German Rojas da Pixabay

Divenuta Bogotà la Bacatà dei Muisca, a metà del Cinquecento, l’odierna metropoli colombiana non poteva che mutuare dalla Spagna la lingua nonché usi, costumi e tradizioni. E notevole è pertanto la “aficiòn a los toros” nella capitale (e nel resto della Colombia, con Ferias e corride celebrate nelle città più importanti).

In gennaio e febbraio la Temporada Taurina si svolge nella monumentale Plaza de Toros de Santamaria (diciottomila posti, bel museo della Tauromachia) con toreros spagnoli nel “cartel” (programma) e le stesse regole e modalità previste dall’altra parte del “Charco” (l’oceano Atlantico, modo di dire usato quando in Spagna si vuol fare riferimento all’America o viceversa). E come in ogni Fiesta Brava che si rispetti, anche a Bogotà alla fine di ogni corrida alberghi e ristoranti con “ascendente Spagna” ospitano le tradizionali Tertulias (discussioni, commenti, critiche) beninteso accompagnate da vinos y tapas. Una comune passione, quella taurina, che trae origine dai tempi coloniali e nel centrosud America rafforza i rapporti e le tradizioni tra Colombia, Perù, Ecuador, Venezuela, Messico e la Spagna.

La città vista dall’alto del Santuario de Monserrate, 3200 metri
Santuario de Monserrate
Santuario de Monserrate

Fatta la conoscenza di Bogotà percorrendone Calles e Carreras, diverte il suo panorama aereo salendo in funicolare (ma c’è chi vi arriva in bicicletta, non per nulla gli scalatori colombiani eccellono sulle montagne delle grandi corse a tappe europee) ai 3.200 metri del Santuario de Monserrate. Una vista intrigante – la sottostante Candelaria, i grattacieli al centro di un enorme agglomerato urbano, e sullo sfondo le quasi invalicabili cime delle Ande centrali e occidentali – un’occasione in più per meditare (pensando alle enormi difficoltà affrontate dai Conquistadores nel raggiungere queste impervie terre) “a cosa non costringe gli uomini l’esecranda fame dell’oro”.

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“Res” per tutti i palati
Ajiaco, la zuppa bogotana di pollo e patate
Ajiaco, la zuppa bogotana di pollo e patate

Quanto alle gite nei dintorni di Bogotà ce n’è per tutti i gusti, anche gastronomicamente parlando; fermo restando che anche in Colombia, come in gran parte del continente americano, l’alimentazione di base è essenzialmente carnivora e se le finanze (quasi sempre) non lo permettono, si rinuncia al filetto per tagli e frattaglie meno costose del “res”, l’animale, il bestiame inteso come “buey o vaca”.

Nota di colore, oltre che dedicata al palato, quasi tutte le escursioni dell’intera giornata prevedono il pranzo a Chia (una trentina di chilometri da Bogotà) da “Andrès Carne de Res”. Un folle, ma nel senso di estremamente divertente, megaristorante (capienza fino a tremila persone, millecinquecento gli addetti ai lavori tra camerieri, animatori, suonatori, sicurezza e quanti altri) che contestualmente a un continuo frastuono (passaggi di orchestrine, pagliacci e miss più o meno pettorute) serve anche bistecconi, altre carni a gogò nonché le locali tradizionali leccornie.

È il caso del “ajiaco”, zuppa bogotana di pollo, aglio cipolle e patate; del “tamal”, carne, solitamente di pollo, cotta e servita dentro una foglia di banana; del “patacòn” (nome che in Romagna inviterebbe a sconci pensieri) un impasto fritto di farina e di una delle tante varietà di banane; della “arepa”, simile alla tortilla messicana ottenuta dal mais, dal multiforme uso (companatico, contenitore di carni e salse varie).

Nei dintorni di Bogotà, le radici di un popolo
Catedral de Sal, a Zapaquirà
Catedral de Sal, a Zapaquirà

Colmate le esigenze dello stomaco restano le esigenze culturali. Che gli organizzatori di escursioni appagano, proponendo varie escursioni nei dintorni di Bogotà, nel dipartimento (uno dei trentatré in cui è suddivisa la Colombia) di Cundinamarca (nome curioso, derivante da “cuntur”, condor in lingua Quechuà, e “Marca” o “Comarca”, in spagnolo regione, quindi “regione del condor”). Una visita ai “pueblitos tradicionales”, oltre a caratteristici villaggi e centri abitati, concede panorami bucolici alternati da haciendas: poderi, fattorie di architettura coloniale o repubblicana. Chi ritiene che la caffeina nuoccia alla salute (e pertanto la evita financo rinunciando a un sopralluogo a una piantagione di caffè) può recarsi (a una cinquantina di chilometri da Bogotà) nelle viscere della terra a visitare la Catedral de Sal, a Zapaquirà (nome evocante Zipa, il grande Cacique dei Muiscas). La sorpresa per la grandezza, meglio dire enormità di questo immenso luogo di culto sotterraneo scavato nel secolo scorso (ma le miniere del prezioso sale risalgono a ben prima dell’arrivo di Colòn) è inferiore solo allo sgomento sofferto da chi pensa al sudore e al tragico sacrificio di chi vi ha lavorato.

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Un “opcional” proposto dal tour operator contempla un’estensione della gita alla Laguna di Guatavita. Quella della aurea (meravigliosa) Balsa Muisca. Uno dei miti dell’Eldorado, inseguito da Gonzalo Jimenez de Quesada. Fondatore, il 6 agosto 1538, di Bogotà. (24/6/09)

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