Alpini: sempre e comunque “Italiani DOC”
Anche perché devo narrare il siparietto accaduto al citato Camparino, laddove qualche mio Bitter ebbe la ventura di incrociarsi con alcuni calici alzati dalle Penne Nere colà accorse (te pareva) al termine della beatificazione del don Carlo, loro Paìs (termine colloquiale – segnalo per info e ad usum dei non montanari ed extracomunitari, isole comprese – impiegato nel rivolgersi i Veci coi Bocia e viceversa). La felice unione di Bianco vino con il Campari (dalla quale, è ben noto, complice l’aggiunta di un pochino di acqua minerale, discende il nobile Spritz, re dei banchi dei bar nell’amato Veneto) non poteva che sciogliere le bocche: quella dello scrivente e quelle dei neoamici Alpini. Ai quali (ero però già alle prese col terzo Bitter, parlo di bicchieri e non di reggimenti, pertanto da non confondere con il 4° Alpini sovente citato dal mè amìs Gianni Clerici) chiesi formalmente tout court di fare una bella Marcia (Alpina) su Roma e di lì governare (loro, gli Alpini) questo povero Belpaese.
Hermanos del Sud America: dalle vette Andine alla piana lombarda
Reduce dal Camparino (non senza essermi cordialmente congedato da alcuni vecchi, anzi antichi Alpini, loro Reduci veri, sì, e pure eroici, dalla tremenda Ritirata di Russia), lungo il cammino verso casa scopro che è domenica eppertanto mi trasferisco (sempre idealmente, con quel che costano oggidì gli aerei, eppoi provate voi a viaggiare tredici ore no-stop nella Economy dell’Iberia) dalle Alpi alle Ande. Ed eccomi nel giardinetto tra Corso Europa e piazza Santo Stefano, laddove, appunto ogni domenica mattina, convengono gli a me cari immigrati andini (peruanos, bolivianos, ecuadorianos – e non ecuadoregnos – un po’ meno i colombianos) allestendo un mercatino intrigante non meno che tenero. Perché, sarà l’età, ma ‘sta mite gente che dalle magnifiche cime innevate si è ritrovata nell’obbligo di venire a sfamarsi in questa città di cacca che è ormai divenuta Milano, beh, posso o no commuovermi (anche perché, ormai “spagnolo di complemento”, un filino di senso di colpa per via dei Conquistadores, suvvia, posso sì o no sentirlo (ma se è per questo gli stessi, poi maltrattati, Incas mica furono teneri imperialisti coi pover crist incontrati sulle Ande e difatti i sullodati ispanici invasori tra Messico e Perù di alleati ne trovarono parecchi).
Tutto per il palato. Meno qualche prodotto di “lusso”!
Salutati e simpatizzato con Quechuas e Aymaras procedo agli acquisti (sono in vendita “mangiari” vari prodotti e scaldati sul posto, riviste e stampa andina, cassette musicali, spezie e aromi: una visita curiosa, ci vada chi sta a Milano la domenica) proseguendo verso casa con maiale (in sud America “chancho”) bollito, una fetta di “tarta di piña” (ananas) e il gustoso “tamales” (pasticcio di carne cotto nella foglia di banana). Ho anche cercato, ma ahimè non trovato, la “quìnoa” (modesto cereale coltivato sulle Ande, un po’ simile al semolino, dagli Inca chiamato “chisiya Mama”, però oggidì di gran moda). “Lo siento (mi spiace) señor” mi fa una anziana ‘india’ somigliante a un’ava di Toro Seduto, “es que no la tenemos, es un producto de lujo”. Fine di una mattina alpino andina.